COLTIVAZIONE DI SOSTANZE STUPEFACENTI E USO PERSONALE. IL DIFFICILE CONTEMPERAMENTO TRA I “REATI DI PERICOLO PRESUNTO” E IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ
LA MASSIMA “Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”. LA NOTA Con la sentenza in commento i giudici di Piazza Cavour tornano ancora una volta a parlare di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti e della rilevanza penale di tale condotta anche quando il suo prodotto sia destinato ad uso personale. Invero, la sentenza richiamata conferma l’orientamento ormai consolidatosi in dottrina e in giurisprudenza e offre interessanti spunti di riflessione in merito a problematiche che non possono definirsi completamente risolte. La vicenda processuale che ha determinato la pronuncia in esame trae origine dalla condotta del sig. P.A., al quale veniva contestato il reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/90 per aver coltivato tre piantine di marijuana, successivamente, con sentenza del 10 marzo 2011, il G.I.P. del Tribunale di Verona dichiarava non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Il provvedimento del G.I.P. era stato adottato sulla base di due ordini di motivi. In primo luogo, non vi era prova che la sostanza detenuta dall’imputato fosse destinata alla cessione e, inoltre, la sua condotta era ritenuta inoffensiva poiché il principio attivo estratto dalle piantine era inferiore alla dose soglia di cui al D.M. 11/4/2006. Avverso la decisione del G.I.P. il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia proponeva ricorso per cassazione, ritenendo che il superamento della dose media giornaliera non potesse fondare il convincimento del giudice circa l’offensività o meno della condotta dell’imputato, in quanto tale valutazione avrebbe dovuto più correttamente essere devoluta al giudice di merito o affidata ad una consulenza tecnica del P.M. La Corte di Cassazione è stata così chiamata a pronunciarsi su una questione più volte affrontata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, al fine di stabilire se si possa assoggettare a sanzione penale anche chi si sia limitato a mettere a coltura un numero ridotto di piante dalle quali è possibile estrarre un modesto quantitativo di principio attivo. Prima di esaminare la sentenza della Suprema Corte e gli opposti orientamenti giurisprudenziali emersi sul tema, occorre evidenziare quanto disposto dagli artt. 73 e 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Il primo comma dell’art. 73 punisce le condotte di chi “senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 coltiva, produce, fabbrica, (…) commercia, trasporta, procura ad altri, (…) sostanze stupefacenti o psicotrope”. Chi, invece, “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope” è punito, ai sensi del comma 1 bis del medesimo articolo, solamente ove tali sostanze non appaiano destinate ad un uso esclusivamente personale; altrimenti, tali condotte costituiscono meri illeciti amministrativi ex art. 75. In merito all’interpretazione di queste norme e alle relative conseguenze sul piano sanzionatorio si sono confrontati contrastanti orientamenti giurisprudenziali. Secondo il primo indirizzo, attenendosi ad un’interpretazione letterale degli articoli richiamati, la coltivazione di sostanze stupefacenti, non rientrando tra le condotte di cui all’art. 73 co. 1 bis, risulterebbe sempre penalmente rilevante, a prescindere dalla destinazione del prodotto ricavato. Più esattamente, si sottolinea che, a seguito dell’intervento del D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 che ha dato attuazione all’esito del referendum abrogativo, sono state depenalizzate soltanto le condotte di detenzione, importazione, acquisto destinate ad uso personale, come può evincersi dall’art. 75 che le assoggetta esclusivamente a sanzione amministrativa, mentre è rimasta invariata l’incriminazione della condotta di coltivazione anche se destinata all’uso personale. In varie pronunce (Cass. pen., sez. IV, 19 gennaio 2006, n. 10138; Cass. pen., sez. VI, 15 novembre 2005, n. 150) la Corte ha ritenuto giustificato tale trattamento differenziato poiché la condotta di coltivazione sarebbe intrinsecamente più pericolosa rispetto a quella di detenzione, acquisto o importazione, determinando il potenziale aumento delle sostanze stupefacenti. A sostegno di tale tesi si pone anche la natura di reato di pericolo astratto o presunto della fattispecie in esame (Cass. pen., sez. IV, 10 gennaio 2008, n. 871; Cass. pen., sez. VI, 16 luglio 2004, n. 31472), qualificazione questa che precluderebbe al giudice l’accertamento della concreta idoneità lesiva della condotta. Accogliendo quest’impostazione, dunque, il fattore quantitativo riferito al numero di piantine coltivate o ai grammi di sostanza prodotti non rileverebbe sotto il profilo della punibilità, bensì dovrebbe essere valutato esclusivamente sul piano del trattamento sanzionatorio, ai fini dell’applicabilità dell’aggravante dell’”ingente quantità” di cui all’art. 80 o dell’attenuante della “lieve entità” di cui all’art. 73 co. 5 del Testo Unico. Un secondo orientamento (Cass. pen., sez. VI, 19 novembre 2007, n. 42650; Cass. pen., sez. VI, 31 ottobre 2007, n. 40362; Cass. pen., 28 settembre 2004, n. 1480), meno rigoroso del precedente, valorizza la distinzione tra coltivazione in senso “tecnico-agrario”, disciplinata dagli artt. 26-28 del D.P.R. del 1990, e coltivazione domestica, funzionale al consumo personale. Solo la prima, in quanto organizzata in modo tale da far desumere il carattere imprenditoriale della coltivazione, dovrebbe considerarsi idonea ad incrementare la diffusione delle sostanze stupefacenti e, di conseguenza, punibile ex art. 73, mentre la seconda, essendo diretta esclusivamente a soddisfare il bisogno drogante del singolo, dovrebbe essere più correttamente assimilata alla condotta di detenzione e, quindi, assoggettata alla stessa disciplina. Vi è ancora una terza ricostruzione secondo cui, in un’ottica di valorizzazione del principio di offensività, non devono considerarsi penalmente rilevanti le condotte di coltivazione da cui sia ricavato un quantitativo a tal punto ridotto di sostanza da risultare in concreto inoffensive. Tale orientamento risulta conforme alla sentenza della Corte Costituzionale n. 360/1995, nella quale i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi su una questione di legittimità sollevata in relazione all’art. 73 per violazione del principio di offensività nella parte in cui sancisce la rilevanza penale della condotta di coltivazione, anche quando questa sia destinata all’uso personale, senza tener conto della quantità di principio attivo ricavabile dalla sostanza. In tale occasione, la Consulta, pur non ritenendo l’art. 73 illegittimo,ne fornì una lettura coerente con il principio di offensività, affermando che “qualora la condotta accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché l’indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile, almeno in grado minimo nella condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile”. Il contrasto giurisprudenziale tra gli indirizzi descritti è stato esaminato e composto dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28605 del 24 aprile 2008, alla quale si sono uniformate numerose pronunce successive (Cass. pen., sez. IV, 7 luglio 2011, n. 3130; Cass. pen., sez. VI, 27 giugno 2011, n. 30201; Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2010, n. 16843; Cass. pen., 14 gennaio 2009, n. 1222). Secondo i giudici di Piazza Cavour, in aderenza con quanto sostenuto dalla tesi più rigorosa, costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. Tale conclusione deriva essenzialmente da due ordini di motivi. In primo luogo, la Suprema Corte, riprendendo le argomentazione già fatte proprie dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 360 del 1995, ha osservato come non sia possibile determinare anticipatamente la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione. La Consulta argomentò, in particolare, che “la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorché valutata sempre in termini di illiceità, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale, venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di contigente aggravamento delle conseguenze delle tossicodipendenze, il rischio alla salute dell’assuntore ove ogni condotta immediatamente antecedente al consumo fosse assoggettata a sanzione penale”. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. Secondo le Sezioni Unite, in considerazione di tale importante differenza, il legislatore, preso atto della peculiare natura dei beni giuridici oggetto di protezione, quali le esigenze di tutela della salute collettiva, ha costruito la fattispecie delittuosa in esame secondo il modello del reato di pericolo presunto, anticipando quindi la tutela penalistica ad uno stadio precedente rispetto al pericolo concreto. In secondo luogo, la Corte di Cassazione contesta la distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione agraria, in quanto tale dicotomia è priva di un riconoscimento normativo nel nostro ordinamento e comunque non riflette la voluntas legis che mira a punire qualsiasi condotta di coltivazione, a prescindere dal modo in cui è organizzata, poiché sempre idonea a creare nuove disponibilità di sostanze droganti sul territorio. Dopo aver esposto le argomentazioni indicate, la Suprema Corte introduce quello che può definirsi il profilo di maggior interesse della pronunzia in discussione, affermando che “residua un’ultima notazione circa la necessità, in ogni caso, della verifica – demandata al giudice di merito – dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. Il principio di offensività – in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (“nullum crimen sine iniuria”) – secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimono in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato. (…) Nella specie, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente idonea a porre in repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. La condotta è “inoffensiva” soltanto se il bene non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo, sicché, con riferimento allo specifico caso in esame, la “offensività” non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”. In altri termini, i giudici introducono un importante temperamento al principio generale della punibilità tout court della condotta di coltivazione, lasciando, in chiusura di sentenza, uno spiraglio aperto alla rilevanza dell’offensività in concreto. A ben vedere, però, si tratta di una rilevanza assai esigua perché, come chiarito, solamente in caso di assoluta inidoneità dell’azione a porre in repentaglio il bene giuridico protetto potrà parlarsi di condotta inoffensiva e, di conseguenza, di insussistenza della fattispecie delittuosa in questione. Proprio richiamando esplicitamente la decisione a Sezioni Unite, la Quarta sezione penale con la sentenza n. 21196 pronunciata il 27 marzo 2012 (e depositata il 31 maggio scorso) ha annullato il provvedimento pronunciato dal G.I.P. del Tribunale di Verona nei confronti dell’imputato. La Corte, dunque, ribalta la censurata sentenza di proscioglimento, osservando che “la circostanza che il P.A. detenesse le piantine per fini di uso personale non esclude la rilevanza penale della condotta. Quanto alla valutazione della offensività del fatto, va osservato che le piante coltivate avevano un peso di gr. 83,8 per una quantità di principio attivo di gr. 0,360, superiore, quindi, alla dose media singola pari, secondo le tabelle allegate al d.p.r. 309 del 1990, a mg. 25. Ne consegue che la valutazione di inoffensività della condotta effettuata dal G.I.P., integra in parte una erronea applicazione della legge, laddove considera rilevante ai fini dell'esclusione della punibilità della condotta, la coltivazione per uso personale.” Ecco allora che la Corte di Cassazione nega la validità delle argomentazioni svolte dal G.I.P. nella sentenza di proscioglimento, chiarendo che la destinazione del prodotto della coltivazione ad uso personale, e non alla cessione, non vale ad escludere la rilevanza penale della condotta, peraltro considerata offensiva del bene giuridico protetto in ragione del superamento della dose media singola. In altri termini, dalla motivazione della sentenza in commento, si evince che l’uso personale, inteso quale scopo della coltivazione di sostanze stupefacenti, sebbene non consenta di escludere la punibilità in astratto di tale condotta, viene in rilievo sotto altro profilo, quello della valutazione della potenzialità lesiva della sostanza ricavabile e, quindi, dell’offensività del fatto. Appare perciò evidente, anche nel caso de quo, la difficoltà di contemperare la qualificazione della figura criminosa di cui all’art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 con l’esigenza da più parti sottolineata di evitare l’incriminazione di fatti connotati da una modesta idoneità lesiva. Il problema consiste nell’individuare lo spazio di operatività del principio di offensività rispetto ai reati di pericolo astratto o presunto, nei quali il legislatore non menziona il pericolo fra gli elementi della norma incriminatrice, poiché lo ritiene implicito nella realizzazione della condotta descritta, in base a comuni regole di esperienza. Pertanto, da una parte si richiede al legislatore di ricorrere ad una forma così incisiva di anticipazione della tutela, non a fronte di una irrazionale ed arbitraria valutazione di pericolosità del fatto, ma a fronte di condotte pericolose secondo l’id quod plerumque accidit e a salvaguardia di beni primari, non suscettibili di essere efficacemente protetti con tecniche di tutela differenti; dall’altra si impone al giudice di ricondurre alla fattispecie astratta, nel rispetto del principio di offensività in concreto, solo quelle condotte che siano effettivamente idonee a porre in pericolo l’interesse tutelato. In conclusione, la sentenza oggetto di analisi conferma una situazione di notevole incertezza sulla soluzione da dare ai quesiti aperti in argomento, in particolare per quanto riguarda l’individuazione di un univoco criterio discriminante che consenta di ricondurre la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti nell’area del lecito o dell’illecito penale, posto che, fino ad oggi, si è fatto talvolta riferimento alla destinazione d’uso e talaltra alla presenza o meno di efficacia drogante, con risultati spesso contrastanti tra loro. La giurisprudenza più recente ha, dunque, cercato di individuare un parametro di riferimento all’interno dello spazio esistente tra la minima efficacia drogante, intesa come limite al di sotto del quale il fatto è penalmente irrilevante per mancanza di tipicità, e la quantità riconducibile ad uso personale, senza però disporre di appigli certi cui ancorare le decisioni. Ne consegue il rischio di pronunce eccessivamente discrezionali nell’individuazione di cosa possa considerarsi offensivo e, soprattutto, offensivo di quale bene, della salute individuale o collettiva, o ancora dell’ordine pubblico. In definitiva, si mantengono attuali molte delle perplessità espresse in materia dalla dottrina e dalla giurisprudenza, perplessità che esigono un tempestivo chiarimento, non solo alla luce della rilevanza assunta dal principio di offensività nel nostro ordinamento, ma soprattutto in attuazione del fondamentale principio della certezza del diritto. Eliana Libroia |
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