RISARCIMENTO DANNI
Cass. civ., Sez. VI - 3, Ord., 31 dicembre 2021, n. 42110 - pubblicato il 10 gennaio 2022
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di risarcimento dei danni per la mancata tempestiva trasposizione delle Direttive comunitarie 16 giugno 1975 n. 1975/362/CEE e 26 gennaio 1982 n. 1982/76/CE in favore dei medici frequentanti le scuole di specializzazione in epoca anteriore all'anno 1991, deve ritenersi che il legislatore, dettando l'art. 11 della L. 19 ottobre 1999, n. 370, con la quale ha proceduto ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo delle citate direttive, abbia palesato una precisa quantificazione dell'obbligo risarcitorio da parte dello Stato, valevole anche nei confronti di coloro i quali non erano ricompresi nel citato art. 11. A seguito di tale esatta determinazione monetaria, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive, si è sostituita un'obbligazione avente natura di debito di valuta, rispetto alla quale, secondo le regole generali di cui agli artt. 1219 e 1224 c.c., gli interessi legali possono essere riconosciuti solo dall'eventuale messa in mora o, in difetto, dalla notificazione della domanda giudiziale. Va, pertanto, esclusa la spettanza della rivalutazione e dei correlati interessi compensativi, salva rigorosa prova, da parte del danneggiato, di circostanze diverse da quelle normali, tempestivamente e analiticamente dedotte in giudizio prima della maturazione delle preclusioni assertive o di merito e di quelle istruttorie.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di risarcimento dei danni per la mancata tempestiva trasposizione delle Direttive comunitarie 16 giugno 1975 n. 1975/362/CEE e 26 gennaio 1982 n. 1982/76/CE in favore dei medici frequentanti le scuole di specializzazione in epoca anteriore all'anno 1991, deve ritenersi che il legislatore, dettando l'art. 11 della L. 19 ottobre 1999, n. 370, con la quale ha proceduto ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo delle citate direttive, abbia palesato una precisa quantificazione dell'obbligo risarcitorio da parte dello Stato, valevole anche nei confronti di coloro i quali non erano ricompresi nel citato art. 11. A seguito di tale esatta determinazione monetaria, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive, si è sostituita un'obbligazione avente natura di debito di valuta, rispetto alla quale, secondo le regole generali di cui agli artt. 1219 e 1224 c.c., gli interessi legali possono essere riconosciuti solo dall'eventuale messa in mora o, in difetto, dalla notificazione della domanda giudiziale. Va, pertanto, esclusa la spettanza della rivalutazione e dei correlati interessi compensativi, salva rigorosa prova, da parte del danneggiato, di circostanze diverse da quelle normali, tempestivamente e analiticamente dedotte in giudizio prima della maturazione delle preclusioni assertive o di merito e di quelle istruttorie.
CORTE COSTITUZIONALE
Corte cost., 28 dicembre 2021, n. 260 - pubblicato il 10 gennaio 2022
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, comma 5, del D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante "Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)". L'irragionevole discrasia fra l'interruzione ex lege della prescrizione e la ratio dell'istituto civilistico, cui l'art. 18, comma 5, del D.Lgs. n. 101 del 2018 fa esplicito rimando, unita alla mancanza di una ragionevole giustificazione che supporti un intervento incisivo, quale l'interruzione della prescrizione, confermano che l'intervento disposto dall'art. 18, comma 5, del D.Lgs. n. 101 del 2018 viola il principio di ragionevolezza e il canone di proporzionalità.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, comma 5, del D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante "Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)". L'irragionevole discrasia fra l'interruzione ex lege della prescrizione e la ratio dell'istituto civilistico, cui l'art. 18, comma 5, del D.Lgs. n. 101 del 2018 fa esplicito rimando, unita alla mancanza di una ragionevole giustificazione che supporti un intervento incisivo, quale l'interruzione della prescrizione, confermano che l'intervento disposto dall'art. 18, comma 5, del D.Lgs. n. 101 del 2018 viola il principio di ragionevolezza e il canone di proporzionalità.
CORTE COSTITUZIONALE
Corte cost., 7 dicembre 2021, n. 236 - pubblicato il 15 dicembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, come convertito, per violazione degli artt. 24 e 111 Cost. Nonostante l'evoluzione dell'emergenza sanitaria e la possibilità di ricalibrare su di essa la programmazione di cassa, l'art. 3, comma 8, del d.l. n. 183 del 2020 ha prorogato la misura in danno dei creditori per un intero anno senza alcun aggiornamento della valutazione comparativa tra i loro diritti giudizialmente accertati e gli interessi dell'esecutato pubblico. In tal modo, gli effetti negativi della protrazione del "blocco" delle esecuzioni sono stati lasciati invariabilmente a carico dei creditori, tra i quali pure possono trovarsi anche soggetti cui è stato riconosciuto un risarcimento in quanto gravemente danneggiati nella salute o operatori economici a rischio di espulsione dal mercato. Costituzionalmente tollerabile ab origine, la misura è divenuta sproporzionata e irragionevole per effetto di una proroga di lungo corso e non bilanciata da una più specifica ponderazione degli interessi in gioco, che ha leso il diritto di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. nonché, al contempo, la parità delle parti e la ragionevole durata del processo esecutivo.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, come convertito, per violazione degli artt. 24 e 111 Cost. Nonostante l'evoluzione dell'emergenza sanitaria e la possibilità di ricalibrare su di essa la programmazione di cassa, l'art. 3, comma 8, del d.l. n. 183 del 2020 ha prorogato la misura in danno dei creditori per un intero anno senza alcun aggiornamento della valutazione comparativa tra i loro diritti giudizialmente accertati e gli interessi dell'esecutato pubblico. In tal modo, gli effetti negativi della protrazione del "blocco" delle esecuzioni sono stati lasciati invariabilmente a carico dei creditori, tra i quali pure possono trovarsi anche soggetti cui è stato riconosciuto un risarcimento in quanto gravemente danneggiati nella salute o operatori economici a rischio di espulsione dal mercato. Costituzionalmente tollerabile ab origine, la misura è divenuta sproporzionata e irragionevole per effetto di una proroga di lungo corso e non bilanciata da una più specifica ponderazione degli interessi in gioco, che ha leso il diritto di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. nonché, al contempo, la parità delle parti e la ragionevole durata del processo esecutivo.
ATTO IMPOSITIVO
Cass. civ., Sez. V, 30 novembre 2021, n. 37368 - pubblicato il 3 dicembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In caso di notificazione a mezzo posta dell'atto impositivo eseguita direttamente dall'Ufficio finanziario ai sensi dell'art. 14 della L. n. 890 del 1982, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall'ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicché non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui e stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, senza necessità dell'invio delia raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell'arrivo delia dichiarazione nel luogo di destinazione ed e superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In caso di notificazione a mezzo posta dell'atto impositivo eseguita direttamente dall'Ufficio finanziario ai sensi dell'art. 14 della L. n. 890 del 1982, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall'ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicché non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui e stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, senza necessità dell'invio delia raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell'arrivo delia dichiarazione nel luogo di destinazione ed e superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione.
ASSENZA PER MALATTIA
Cass. civ., Sez. lavoro, 25 novembre 2021, n. 36729 - pubblicato il 2 dicembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
L'assenza per malattia comporta una sospensione dell'attuazione del rapporto di lavoro sotto il profilo della prestazione, permanendo peraltro il regime di subordinazione e pertanto il potere direttivo e di controllo datoriale, sia pure modulato sull'effettiva consistenza del rapporto: in particolare, ben potendo il datore medesimo procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e quindi a giustificare l'assenza, in difetto di una preclusione comportata dall'art. 5 della legge n. 300/1970, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
L'assenza per malattia comporta una sospensione dell'attuazione del rapporto di lavoro sotto il profilo della prestazione, permanendo peraltro il regime di subordinazione e pertanto il potere direttivo e di controllo datoriale, sia pure modulato sull'effettiva consistenza del rapporto: in particolare, ben potendo il datore medesimo procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e quindi a giustificare l'assenza, in difetto di una preclusione comportata dall'art. 5 della legge n. 300/1970, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore.
LICENZIAMENTO
Cass. civ., Sez. lavoro, 10 novembre 2021, n. 33183 - pubblicato il 15 novembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
La comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro dà inizio alla procedura di licenziamento collettivo deve compiutamente adempiere l'obbligo di fornire le informazioni specificate dall'art. 4, comma 3 della L. 23 luglio 1991 n. 223, in maniera tale da consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. La suddetta comunicazione è in contrasto con l'obbligo normativo di trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale. Il giudice dell'impugnazione del licenziamento collettivo o del collocamento in mobilità deve verificare, con valutazione di merito non censurabile nel giudizio di legittimità, ove assistita da un accertamento sufficiente e non contraddittorio, l'adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
La comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro dà inizio alla procedura di licenziamento collettivo deve compiutamente adempiere l'obbligo di fornire le informazioni specificate dall'art. 4, comma 3 della L. 23 luglio 1991 n. 223, in maniera tale da consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. La suddetta comunicazione è in contrasto con l'obbligo normativo di trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale. Il giudice dell'impugnazione del licenziamento collettivo o del collocamento in mobilità deve verificare, con valutazione di merito non censurabile nel giudizio di legittimità, ove assistita da un accertamento sufficiente e non contraddittorio, l'adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura.
DANNO DA RIDUZIONE
DELLA CAPACITà LAVORATIVA SPECIFICA
Cass. civ., Sez. III, 9 novembre 2021, n. 32649 - pubblicato il 15 novembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il danno da riduzione della capacità lavorativa specifica è generalmente ricondotto nell'ambito non già del danno biologico bensì del danno patrimoniale. L'accertamento dell'esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica non comporta l'automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un'attività produttiva di reddito e la diminuzione o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso. Allorquando trattisi di postumi di lieve entità, o comunque manchino elementi concreti dai quali desumere un'incidenza della lesione sull'attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso, vanno escluse l'esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il danno da riduzione della capacità lavorativa specifica è generalmente ricondotto nell'ambito non già del danno biologico bensì del danno patrimoniale. L'accertamento dell'esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica non comporta l'automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un'attività produttiva di reddito e la diminuzione o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso. Allorquando trattisi di postumi di lieve entità, o comunque manchino elementi concreti dai quali desumere un'incidenza della lesione sull'attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso, vanno escluse l'esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica.
SOMMINISTRAZIONE
Cass. civ., Sez. lavoro, 2 novembre 2021, n. 31127 - pubblicato il 5 novembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema d'interposizione nelle prestazioni di lavoro, l'utilizzazione da parte dell'appaltatore di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie vietata dall'art. 1, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l'apporto dell'appaltatore. In assenza di tale presupposto, la configurabilità di detta fattispecie vietata può essere esclusa quando, nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell'appaltante, sia verificabile un rilevante apporto da parte dell'appaltatore, mediante il conferimento di capitale, "know how", "software" ed in genere beni immateriali, aventi rilievo preminente nell'economia dell'appalto.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema d'interposizione nelle prestazioni di lavoro, l'utilizzazione da parte dell'appaltatore di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie vietata dall'art. 1, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l'apporto dell'appaltatore. In assenza di tale presupposto, la configurabilità di detta fattispecie vietata può essere esclusa quando, nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell'appaltante, sia verificabile un rilevante apporto da parte dell'appaltatore, mediante il conferimento di capitale, "know how", "software" ed in genere beni immateriali, aventi rilievo preminente nell'economia dell'appalto.
IVA
Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 28 ottobre 2021, n. 324/20 - pubblicato il 5 novembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
L'articolo 64, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 deve essere interpretato alla luce dell'articolo 63 di tale direttiva, dal momento che la prima disposizione è intrinsecamente connessa alla seconda. Da un lato, secondo tale articolo 63, il fatto generatore dell'imposta si verifica e l'imposta diventa esigibile all'atto della cessione di beni o della prestazione di servizi. Dall'altro lato, ai sensi di detto articolo 64, paragrafo 1, qualora le prestazioni di servizi comportino, in particolare, pagamenti successivi si considerano effettuate, ai sensi del suddetto articolo 63, al momento della scadenza dei periodi cui si riferiscono tali pagamenti. Dall'applicazione combinata di queste due disposizioni risulta che, per le prestazioni che comportano pagamenti successivi, il fatto generatore dell'imposta si verifica e l'imposta diviene esigibile al momento della scadenza dei periodi cui si riferiscono tali pagamenti.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
L'articolo 64, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 deve essere interpretato alla luce dell'articolo 63 di tale direttiva, dal momento che la prima disposizione è intrinsecamente connessa alla seconda. Da un lato, secondo tale articolo 63, il fatto generatore dell'imposta si verifica e l'imposta diventa esigibile all'atto della cessione di beni o della prestazione di servizi. Dall'altro lato, ai sensi di detto articolo 64, paragrafo 1, qualora le prestazioni di servizi comportino, in particolare, pagamenti successivi si considerano effettuate, ai sensi del suddetto articolo 63, al momento della scadenza dei periodi cui si riferiscono tali pagamenti. Dall'applicazione combinata di queste due disposizioni risulta che, per le prestazioni che comportano pagamenti successivi, il fatto generatore dell'imposta si verifica e l'imposta diviene esigibile al momento della scadenza dei periodi cui si riferiscono tali pagamenti.
LAVORO E PREVIDENZA
Corte cost., 14 ottobre 2021, n. 194 - pubblicato il 19 ottobre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione. Ciò, sia sotto il profilo censurato del contestato obbligo restitutorio ivi previsto in quanto ritenuto specifica finalità di contrasto del possibile abuso da parte di chi chiede il beneficio di cui alla norma in questione senza poi intraprendere, in concreto, un'attività di lavoro autonomo o di impresa e, altresì, coerente con l'indicata finalità antielusiva della disposizione censurata; sia sotto il profilo del pure censurato difetto di proporzionalità dell'obbligo di restituzione per intero del contributo da parte del lavoratore che ne ha ottenuto l'erogazione in via anticipata, anche nell'ipotesi in cui abbia costituito un rapporto di lavoro subordinato tale, per la sua limitata durata, da non incidere negativamente sulla prosecuzione dell'attività autonoma o di impresa dello stesso giacché dal bilanciamento compiuto dal legislatore ordinario, nell'esercizio della sua discrezionalità, non emerge una "sproporzione" manifestamente irragionevole perché la disposizione censurata ha un orizzonte temporale di durata limitata. Il contemperamento con l'eventuale interesse del beneficiario dell'incentivo all'autoimprenditorialità a rientrare nel mercato del lavoro subordinato dopo aver effettivamente intrapreso, in ipotesi senza successo, un'attività autonoma, imprenditoriale o in forma cooperativa, è realizzato dal legislatore con la previsione dello stesso art. 8, comma 4, del D.Lgs. n. 22 del 2015, che limita l'obbligo restitutorio all'ipotesi in cui il lavoratore si sia rioccupato alle dipendenze altrui, con un rapporto subordinato vero e proprio, prima della scadenza del periodo per il quale egli avrebbe avuto diritto alla percezione della NASpI in forma periodica. Si tratta quindi di una condizionalità che sussiste per un limitato periodo di tempo, ritagliato sulla durata della NASpI altrimenti spettante, caso per caso, in forma periodica, secondo un bilanciamento non dissimile da quello operato nel caso dell'anticipo dell'indennità di mobilità per la quale era previsto, per tutti i beneficiari della prestazione, un unico limite temporale di ventiquattro mesi.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione. Ciò, sia sotto il profilo censurato del contestato obbligo restitutorio ivi previsto in quanto ritenuto specifica finalità di contrasto del possibile abuso da parte di chi chiede il beneficio di cui alla norma in questione senza poi intraprendere, in concreto, un'attività di lavoro autonomo o di impresa e, altresì, coerente con l'indicata finalità antielusiva della disposizione censurata; sia sotto il profilo del pure censurato difetto di proporzionalità dell'obbligo di restituzione per intero del contributo da parte del lavoratore che ne ha ottenuto l'erogazione in via anticipata, anche nell'ipotesi in cui abbia costituito un rapporto di lavoro subordinato tale, per la sua limitata durata, da non incidere negativamente sulla prosecuzione dell'attività autonoma o di impresa dello stesso giacché dal bilanciamento compiuto dal legislatore ordinario, nell'esercizio della sua discrezionalità, non emerge una "sproporzione" manifestamente irragionevole perché la disposizione censurata ha un orizzonte temporale di durata limitata. Il contemperamento con l'eventuale interesse del beneficiario dell'incentivo all'autoimprenditorialità a rientrare nel mercato del lavoro subordinato dopo aver effettivamente intrapreso, in ipotesi senza successo, un'attività autonoma, imprenditoriale o in forma cooperativa, è realizzato dal legislatore con la previsione dello stesso art. 8, comma 4, del D.Lgs. n. 22 del 2015, che limita l'obbligo restitutorio all'ipotesi in cui il lavoratore si sia rioccupato alle dipendenze altrui, con un rapporto subordinato vero e proprio, prima della scadenza del periodo per il quale egli avrebbe avuto diritto alla percezione della NASpI in forma periodica. Si tratta quindi di una condizionalità che sussiste per un limitato periodo di tempo, ritagliato sulla durata della NASpI altrimenti spettante, caso per caso, in forma periodica, secondo un bilanciamento non dissimile da quello operato nel caso dell'anticipo dell'indennità di mobilità per la quale era previsto, per tutti i beneficiari della prestazione, un unico limite temporale di ventiquattro mesi.
LEASING
Cass. civ., Sez. III, Ord., 14 ottobre 2021, n. 28022 - pubblicato il 18 ottobre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Nel contratto di leasing traslativo è valida ed efficace la clausola secondo la quale, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione. II c.d. "patto di deduzione" in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che, se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell'utilizzatore, il bene è già stato venduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente, ex art. 1227, comma secondo, c.c., nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza. Se invece, al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell'utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Nel contratto di leasing traslativo è valida ed efficace la clausola secondo la quale, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione. II c.d. "patto di deduzione" in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che, se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell'utilizzatore, il bene è già stato venduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente, ex art. 1227, comma secondo, c.c., nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza. Se invece, al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell'utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato.
DIVORZIO
Cass. civ., Sez. I, Ord., 13 ottobre 2021, n. 27906 - pubblicato il 14 ottobre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il giudice di merito, nel valutare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che richieda l'assegno divorzile, o l'impossibilità per lo stesso di procurarseli per ragioni oggettive, deve tener conto, utilizzando i criteri di cui all'art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, sia dell'impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente da parte di quest'ultimo, sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo che dimostri di aver dato alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale, senza che abbiano rilievo, da soli, lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale dell'altro ex coniuge, tenuto conto che la differenza reddituale è coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ma è oramai irrilevante ai fini della determinazione dell'assegno, e l'entità del reddito e/o del patrimonio dell'altro ex coniuge non giustifica, di per sé, la corresponsione di un assegno in proporzione delle sue sostanze.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il giudice di merito, nel valutare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che richieda l'assegno divorzile, o l'impossibilità per lo stesso di procurarseli per ragioni oggettive, deve tener conto, utilizzando i criteri di cui all'art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, sia dell'impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente da parte di quest'ultimo, sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo che dimostri di aver dato alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale, senza che abbiano rilievo, da soli, lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale dell'altro ex coniuge, tenuto conto che la differenza reddituale è coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ma è oramai irrilevante ai fini della determinazione dell'assegno, e l'entità del reddito e/o del patrimonio dell'altro ex coniuge non giustifica, di per sé, la corresponsione di un assegno in proporzione delle sue sostanze.
Articoli
ABUSO DEL DIRITTO
Cass. civ., Sez. VI - 5 Ord., 16 settembre 2021, n. 25131 - pubblicato il 22 settembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il cui fondamento si rinviene nell'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili, che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici, con la conseguenza che il carattere abusivo va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non necessariamente si identificano in una redditività immediata, potendo consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il cui fondamento si rinviene nell'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili, che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici, con la conseguenza che il carattere abusivo va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non necessariamente si identificano in una redditività immediata, potendo consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda.
RAPPORTO DI LAVORO PRIVATIZZATO
Cass. civ., Sez. lavoro, 14 settembre 2021, n. 24698 - pubblicato il 21 settembre 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di rapporto di lavoro privatizzato, gli atti e i procedimenti posti in essere dall'Amministrazione ai fini della gestione dei rapporti di lavoro subordinati devono essere valutati secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, secondo una precisa scelta legislativa (nel senso dell'adozione di moduli privatistici dell'azione amministrativa) che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In tema di rapporto di lavoro privatizzato, gli atti e i procedimenti posti in essere dall'Amministrazione ai fini della gestione dei rapporti di lavoro subordinati devono essere valutati secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, secondo una precisa scelta legislativa (nel senso dell'adozione di moduli privatistici dell'azione amministrativa) che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost.
ATTENUANTI COMUNI
Corte cost., 8 luglio 2021, n. 143 - pubblicato il 14 luglio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' costituzionalmente illegittimo, con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., l'69, 4° comma, c.p., come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all'art. 630 cod. pen.– sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen. La disposizione censurata, nel precludere la prevalenza sulla recidiva reiterata dell'attenuante del «fatto di lieve entità», vanifica la necessaria funzione mitigatrice della pena. La scelta del legislatore trova un necessario bilanciamento proprio nella facoltà del giudice, nei casi di sequestro di persona a scopo di estorsione in cui il fatto è riconosciuto di lieve entità, di applicare la diminuzione della pena, fino alla misura massima non eccedente il terzo (otto anni e quattro mesi di reclusione), che in tale marcata estensione realizza la finalità di riequilibrio di un trattamento sanzionatorio di particolare rigore. Va quindi ribadito il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all'offensività del fatto, che risulterebbe vanificato da una «abnorme enfatizzazione» della recidiva, indice di rimproverabilità e pericolosità, rilevante sul piano strettamente soggettivo. Il divieto inderogabile di prevalenza dell'attenuante in esame non è dunque compatibile con il principio di determinazione di una pena proporzionata, idonea a tendere alla rieducazione del condannato ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost., che implica «un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra». Violato è anche il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), in quanto il divieto censurato vanifica la funzione che l'attenuante tende ad assicurare, ossia sanzionare in modo diverso situazioni differenti sul piano dell'offensività della condotta. Per effetto di tale divieto si ha, invece, che fatti di minore entità possono essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell'art. 630 cod. pen., per le ipotesi più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo i medesimi beni giuridici, sono completamente differenti con riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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E' costituzionalmente illegittimo, con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., l'69, 4° comma, c.p., come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all'art. 630 cod. pen.– sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen. La disposizione censurata, nel precludere la prevalenza sulla recidiva reiterata dell'attenuante del «fatto di lieve entità», vanifica la necessaria funzione mitigatrice della pena. La scelta del legislatore trova un necessario bilanciamento proprio nella facoltà del giudice, nei casi di sequestro di persona a scopo di estorsione in cui il fatto è riconosciuto di lieve entità, di applicare la diminuzione della pena, fino alla misura massima non eccedente il terzo (otto anni e quattro mesi di reclusione), che in tale marcata estensione realizza la finalità di riequilibrio di un trattamento sanzionatorio di particolare rigore. Va quindi ribadito il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all'offensività del fatto, che risulterebbe vanificato da una «abnorme enfatizzazione» della recidiva, indice di rimproverabilità e pericolosità, rilevante sul piano strettamente soggettivo. Il divieto inderogabile di prevalenza dell'attenuante in esame non è dunque compatibile con il principio di determinazione di una pena proporzionata, idonea a tendere alla rieducazione del condannato ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost., che implica «un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra». Violato è anche il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), in quanto il divieto censurato vanifica la funzione che l'attenuante tende ad assicurare, ossia sanzionare in modo diverso situazioni differenti sul piano dell'offensività della condotta. Per effetto di tale divieto si ha, invece, che fatti di minore entità possono essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell'art. 630 cod. pen., per le ipotesi più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo i medesimi beni giuridici, sono completamente differenti con riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo.
QUESTIONI DI LEGITTIMITà COSTITUZIONALE
Corte cost., 6 luglio 2021, n. 138 - pubblicato il 13 luglio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all'art. 2, comma 1, 6 e 9 della legge della Regione Liguria 19 maggio 2020, n. 9 che ha aggiunto, nella parte finale dell'art. 29, comma 13, della legge della Regione Liguria 1° luglio 1994, n. 29 (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio), un ulteriore periodo ai sensi del quale "il consenso si intende validamente accordato nel caso in cui non esiste un formale diniego". La disposizione impugnata è ritenuta in contrasto con la riserva di competenza legislativa allo Stato in materia di «ordinamento civile» di cui all'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. in quanto, consentendo ai cacciatori di mantenere, se il proprietario non manifesta espressamente il suo dissenso, sul fondo altrui il materiale utilizzato per la costruzione degli appostamenti temporanei, inciderebbe sulle facoltà dominicali garantite dall'art. 832 c.c. Invero la disciplina del diritto di proprietà attiene alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e l'ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull'esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire sul territorio nazionale l'uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati. Il limite dell'ordinamento civile, quindi, identifica un'area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprende i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione. Nel caso in esame, la norma impugnata nell'aggiungere nella parte finale dell'art. 29, un ulteriore periodo, introduce una presunzione di consenso del proprietario del fondo al mantenimento su di esso del materiale usato per la costruzione degli appostamenti temporanei, che eccede i limiti del legittimo intervento del legislatore regionale, invadendo la competenza riservata allo Stato nella materia "ordinamento civile".
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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E' fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all'art. 2, comma 1, 6 e 9 della legge della Regione Liguria 19 maggio 2020, n. 9 che ha aggiunto, nella parte finale dell'art. 29, comma 13, della legge della Regione Liguria 1° luglio 1994, n. 29 (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio), un ulteriore periodo ai sensi del quale "il consenso si intende validamente accordato nel caso in cui non esiste un formale diniego". La disposizione impugnata è ritenuta in contrasto con la riserva di competenza legislativa allo Stato in materia di «ordinamento civile» di cui all'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. in quanto, consentendo ai cacciatori di mantenere, se il proprietario non manifesta espressamente il suo dissenso, sul fondo altrui il materiale utilizzato per la costruzione degli appostamenti temporanei, inciderebbe sulle facoltà dominicali garantite dall'art. 832 c.c. Invero la disciplina del diritto di proprietà attiene alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e l'ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull'esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire sul territorio nazionale l'uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati. Il limite dell'ordinamento civile, quindi, identifica un'area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprende i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione. Nel caso in esame, la norma impugnata nell'aggiungere nella parte finale dell'art. 29, un ulteriore periodo, introduce una presunzione di consenso del proprietario del fondo al mantenimento su di esso del materiale usato per la costruzione degli appostamenti temporanei, che eccede i limiti del legittimo intervento del legislatore regionale, invadendo la competenza riservata allo Stato nella materia "ordinamento civile".
PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
Cass. civ., Sez. lavoro, 21 giugno 2021, n. 17603 - pubblicato il 29 giugno 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
L'art. 55-bis del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, applicabile "ratione temporis", laddove fa decorrere il termine per la conclusione del procedimento disciplinare dalla data "di prima acquisizione della notizia della infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora", si riferisce non già all'acquisizione della notizia da parte di un qualsiasi ufficio dell'amministrazione, ma soltanto alla sua acquisizione da parte dell'ufficio per i procedimenti disciplinari e/o del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. Il medesimo principio si applica anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione (dovendo aversi riguardo, in tal caso, alla data in cui l'ufficio per i procedimenti disciplinari riceve gli atti trasmessi dal responsabile della struttura o nella quale il medesimo ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell'infrazione), poiché la contestazione può essere ritenuta tardiva solo qualora l'amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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L'art. 55-bis del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, applicabile "ratione temporis", laddove fa decorrere il termine per la conclusione del procedimento disciplinare dalla data "di prima acquisizione della notizia della infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora", si riferisce non già all'acquisizione della notizia da parte di un qualsiasi ufficio dell'amministrazione, ma soltanto alla sua acquisizione da parte dell'ufficio per i procedimenti disciplinari e/o del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. Il medesimo principio si applica anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione (dovendo aversi riguardo, in tal caso, alla data in cui l'ufficio per i procedimenti disciplinari riceve gli atti trasmessi dal responsabile della struttura o nella quale il medesimo ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell'infrazione), poiché la contestazione può essere ritenuta tardiva solo qualora l'amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio.
INFORTUNI SUL LAVORO
Cass. civ., Sez. lavoro, 18 giugno 2021, n. 17576 - pubblicato il 23 giugno 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Ne discende che nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto, della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Ne discende che nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto, della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.
VIOLAZIONE DEI DATI PERSONALI
Cass. civ., Sez. I, Ord., 10 giugno 2021, n. 16402 - pubblicato il 16 giugno 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di violazione dei dati personali, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In tema di violazione dei dati personali, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.
DANNI CAGIONATI DA ANIMALI
Cass. civ., Sez. VI - 3 Ord., 9 giugno 2021, n. 16191 - pubblicato il 16 giugno 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Nell'azione di risarcimento del danno cagionato da animali domestici, a norma dell'art. 2052 c.c., la circostanza che un cavallo sfuggito al padrone fosse presente, dopo il sinistro, nelle immediate vicinanze del luogo "teatro" dello stesso, nonché il coinvolgimento del medesimo animale, quella stessa notte, in altri sinistri, sono elementi insufficienti per delineare una verosimile dinamica del sinistro stesso ed imputare una responsabilità al padrone dell'animale, considerato anche che le ulteriori circostanze del fatto non sono affatto incompatibili con la conclusione che il sinistro possa essere stato determinato da un errore di guida dello stesso conducente.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Nell'azione di risarcimento del danno cagionato da animali domestici, a norma dell'art. 2052 c.c., la circostanza che un cavallo sfuggito al padrone fosse presente, dopo il sinistro, nelle immediate vicinanze del luogo "teatro" dello stesso, nonché il coinvolgimento del medesimo animale, quella stessa notte, in altri sinistri, sono elementi insufficienti per delineare una verosimile dinamica del sinistro stesso ed imputare una responsabilità al padrone dell'animale, considerato anche che le ulteriori circostanze del fatto non sono affatto incompatibili con la conclusione che il sinistro possa essere stato determinato da un errore di guida dello stesso conducente.
ARTICOLO
DELL' AVV. GAETANO RICCIO - AVV. ELIANA LIBROIA
CASE POPOLARI
Corte cost., 28 maggio 2021, n. 112 - pubblicato il 3 giugno 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
È costituzionalmente illegittimo l'art. 31, comma 3, ultimo capoverso, e comma 4, lettera a), della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica), nella parte in cui non consentono di inquadrare nell'area della protezione, ai fini della determinazione del canone di locazione sopportabile, i nuclei familiari con redditi da lavoro autonomo con ISEE-ERP di valore corrispondente a tale area. La disciplina censurata è finalizzata a consentire, attraverso canoni di locazione particolarmente vantaggiosi, il godimento effettivo di un diritto inviolabile a beneficio di nuclei familiari che versano in condizioni di notevole fragilità economica. Ne deriva che non si ravvisa alcuna ragionevole giustificazione a fondamento della diversa determinazione del canone di locazione, a seconda che gli assegnatari degli alloggi siano titolari di redditi da pensione, da lavoro dipendente o assimilato o percepiscano entrate da un'attività di lavoro autonomo. In particolare, la ragionevolezza della disparità di trattamento non può rinvenirsi né sotto il profilo della differente disciplina tributaria che caratterizza le varie tipologie di reddito, né avendo riguardo al contributo finanziario offerto dai soli lavoratori dipendenti, in un risalente passato, alla realizzazione dell'edilizia residenziale pubblica. La diversità di trattamento perde, dunque, qualsivoglia giustificazione correlabile alla fonte del reddito, con conseguente declaratoria di incostituzionalità.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
È costituzionalmente illegittimo l'art. 31, comma 3, ultimo capoverso, e comma 4, lettera a), della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica), nella parte in cui non consentono di inquadrare nell'area della protezione, ai fini della determinazione del canone di locazione sopportabile, i nuclei familiari con redditi da lavoro autonomo con ISEE-ERP di valore corrispondente a tale area. La disciplina censurata è finalizzata a consentire, attraverso canoni di locazione particolarmente vantaggiosi, il godimento effettivo di un diritto inviolabile a beneficio di nuclei familiari che versano in condizioni di notevole fragilità economica. Ne deriva che non si ravvisa alcuna ragionevole giustificazione a fondamento della diversa determinazione del canone di locazione, a seconda che gli assegnatari degli alloggi siano titolari di redditi da pensione, da lavoro dipendente o assimilato o percepiscano entrate da un'attività di lavoro autonomo. In particolare, la ragionevolezza della disparità di trattamento non può rinvenirsi né sotto il profilo della differente disciplina tributaria che caratterizza le varie tipologie di reddito, né avendo riguardo al contributo finanziario offerto dai soli lavoratori dipendenti, in un risalente passato, alla realizzazione dell'edilizia residenziale pubblica. La diversità di trattamento perde, dunque, qualsivoglia giustificazione correlabile alla fonte del reddito, con conseguente declaratoria di incostituzionalità.
TRIBUTI
Cass. civ., Sez. V, Ord., 27 maggio 2021, n. 14736 - pubblicato il 3 giugno 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di riscossione ed esecuzione a mezzo ruolo di tributi il cui presupposto impositivo sia stato realizzato dalla società e la cui debenza risulti da un avviso di accertamento notificato alla società e da questa non impugnato, il socio può impugnare la cartella notificatagli eccependo (tra l'altro) la violazione del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale. In tal caso, se si tratta di società semplice (o irregolare), incombe sul socio l'onere di provare che il creditore possa soddisfarsi in tutto o in parte sul patrimonio sociale; se si tratta, invece, di società in nome collettivo, in accomandita semplice o per azioni, è l'amministrazione creditrice a dover provare l'insufficienza totale o parziale del patrimonio sociale, a meno che non risulti "aliunde" dimostrata in modo certo l'insufficienza del patrimonio sociale per la realizzazione anche parziale del credito, come, ad esempio, in caso in cui la società sia cancellata. Ne consegue che, se l'amministrazione prova la totale incapienza patrimoniale, il ricorso andrà respinto; se, invece, il coobbligato beneficiato prova la sufficienza del patrimonio, il ricorso andrà accolto. Se la prova della capienza è parziale, il ricorso sarà accolto negli stessi limiti. Se nessuna prova si riesce a dare, l'applicazione della regola suppletiva posta dall'art. 2697 c.c. comporterà che il ricorso sarà accolto o respinto, a seconda che l'onere della prova gravi sul creditore, oppure sul coobbligato sussidiario.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di riscossione ed esecuzione a mezzo ruolo di tributi il cui presupposto impositivo sia stato realizzato dalla società e la cui debenza risulti da un avviso di accertamento notificato alla società e da questa non impugnato, il socio può impugnare la cartella notificatagli eccependo (tra l'altro) la violazione del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale. In tal caso, se si tratta di società semplice (o irregolare), incombe sul socio l'onere di provare che il creditore possa soddisfarsi in tutto o in parte sul patrimonio sociale; se si tratta, invece, di società in nome collettivo, in accomandita semplice o per azioni, è l'amministrazione creditrice a dover provare l'insufficienza totale o parziale del patrimonio sociale, a meno che non risulti "aliunde" dimostrata in modo certo l'insufficienza del patrimonio sociale per la realizzazione anche parziale del credito, come, ad esempio, in caso in cui la società sia cancellata. Ne consegue che, se l'amministrazione prova la totale incapienza patrimoniale, il ricorso andrà respinto; se, invece, il coobbligato beneficiato prova la sufficienza del patrimonio, il ricorso andrà accolto. Se la prova della capienza è parziale, il ricorso sarà accolto negli stessi limiti. Se nessuna prova si riesce a dare, l'applicazione della regola suppletiva posta dall'art. 2697 c.c. comporterà che il ricorso sarà accolto o respinto, a seconda che l'onere della prova gravi sul creditore, oppure sul coobbligato sussidiario.
LEASING
Cass. civ., Sez. III, 14 maggio 2021, n. 13144 - pubblicato il 15 maggio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Se l'utilizzatore di un bene immobile - che ne disponga sulla base di un contratto di leasing - lo lochi ad un terzo, ed il contratto di leasing sia oggetto di successiva risoluzione, egli certamente perderà il diritto al pagamento dei canoni di locazione dal momento della risoluzione del leasing. A maggior ragione la conclusione di cui sopra è valida, laddove il contratto di locazione sia stato stipulato tra l'originario proprietario dell'immobile e, solo successivamente, in essa sia subentrato l'utilizzatore, a seguito di un'operazione di leasing in base alla quale il predetto originario proprietario abbia alienato il bene alla società finanziaria e quest'ultima lo abbia concesso in leasing all'utilizzatore ed infine il leasing sia stato dichiarato risolto per inadempimento dell'utilizzatore. In tal caso, anzi, dovrà necessariamente affermarsi che, a seguito della risoluzione del contratto di leasing, nella locazione subentra l'attuale proprietario dell'immobile, ai sensi dell'art. 1602 c.c., in quanto il conduttore ha originariamente stipulato la locazione con (l'allora) proprietario e, quindi, l'efficacia del predetto contratto di locazione non dipende dall'efficacia di un contratto di locazione principale, come nella sublocazione.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Se l'utilizzatore di un bene immobile - che ne disponga sulla base di un contratto di leasing - lo lochi ad un terzo, ed il contratto di leasing sia oggetto di successiva risoluzione, egli certamente perderà il diritto al pagamento dei canoni di locazione dal momento della risoluzione del leasing. A maggior ragione la conclusione di cui sopra è valida, laddove il contratto di locazione sia stato stipulato tra l'originario proprietario dell'immobile e, solo successivamente, in essa sia subentrato l'utilizzatore, a seguito di un'operazione di leasing in base alla quale il predetto originario proprietario abbia alienato il bene alla società finanziaria e quest'ultima lo abbia concesso in leasing all'utilizzatore ed infine il leasing sia stato dichiarato risolto per inadempimento dell'utilizzatore. In tal caso, anzi, dovrà necessariamente affermarsi che, a seguito della risoluzione del contratto di leasing, nella locazione subentra l'attuale proprietario dell'immobile, ai sensi dell'art. 1602 c.c., in quanto il conduttore ha originariamente stipulato la locazione con (l'allora) proprietario e, quindi, l'efficacia del predetto contratto di locazione non dipende dall'efficacia di un contratto di locazione principale, come nella sublocazione.
DIRITTO DI PRELAZIONE
Cass. civ., Sez. III, 13 maggio 2021, n. 12894 - pubblicato il 14 maggio 2021
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Foro di Nocera Inferiore
La "denuntiatio" rivolta al titolare del diritto di prelazione è atto finalizzato all'esclusivo interesse del coltivatore, al fine di consentirgli di valutare la convenienza o meno di esercitare il diritto stesso. In proposito, è irrituale e priva di effetti la "denuntiatio" effettuata mediante trasmissione di un contratto preliminare indicante un prezzo unitario per il fondo agricolo nel suo complesso (irrilevante in tal caso essendo che oggetto del detto preliminare sia un fondo condotto in affitto, per porzioni separate, da una pluralità di affittuari ovvero un fondo solo parzialmente oggetto di affitto, per essere la residua parte nella piena disponibilità della parte alienante), giacché l'avente diritto, che nel caso può esercitare la prelazione attribuitagli dalla legge solo relativamente ad una porzione del più ampio appezzamento di terreno, non risulta a tale stregua posto nelle condizioni di esercitare il proprio diritto.
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La "denuntiatio" rivolta al titolare del diritto di prelazione è atto finalizzato all'esclusivo interesse del coltivatore, al fine di consentirgli di valutare la convenienza o meno di esercitare il diritto stesso. In proposito, è irrituale e priva di effetti la "denuntiatio" effettuata mediante trasmissione di un contratto preliminare indicante un prezzo unitario per il fondo agricolo nel suo complesso (irrilevante in tal caso essendo che oggetto del detto preliminare sia un fondo condotto in affitto, per porzioni separate, da una pluralità di affittuari ovvero un fondo solo parzialmente oggetto di affitto, per essere la residua parte nella piena disponibilità della parte alienante), giacché l'avente diritto, che nel caso può esercitare la prelazione attribuitagli dalla legge solo relativamente ad una porzione del più ampio appezzamento di terreno, non risulta a tale stregua posto nelle condizioni di esercitare il proprio diritto.
FALLIMENTO
Cass. civ., Sez. Unite, 7 maggio 2021, n. 12154 - pubblicato l'8 maggio 2021
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Foro di Nocera Inferiore
In caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo (avente ad oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma 3, L.F., il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 L.F. per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata, ai predetti fini, anche dall'ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d'ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l'avvenuta dichiarazione di fallimento medesima.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo (avente ad oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma 3, L.F., il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 L.F. per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata, ai predetti fini, anche dall'ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d'ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l'avvenuta dichiarazione di fallimento medesima.
BANCHE
Cass. civ., Sez. I, Ord., 23 aprile 2021, n. 10838 - pubblicato il 28 aprile 2021
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Foro di Nocera Inferiore
Nel caso di domanda proposta dal correntista al fine di ottenere l'illegittimità di taluni addebiti in conto corrente, l'accertamento del dare e avere può attuarsi con l'utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete, atte a dar ragione del saldo maturato all'inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto. A tal fine, ci si può inoltre avvalere di tutti quegli elementi, desunti anche da altri documenti o da ammissioni delle stesse parti, i quali consentano di affermare che il debito, nell'intervallo temporale non documentato, sia inesistente o inferiore al saldo passivo iniziale del primo degli estratti conto prodotti o che permettano addirittura di affermare che in quell'arco di tempo sia maturato un credito per il cliente stesso. Diversamente, si devono elaborare i conteggi partendo dal primo saldo debitore documentato.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Nel caso di domanda proposta dal correntista al fine di ottenere l'illegittimità di taluni addebiti in conto corrente, l'accertamento del dare e avere può attuarsi con l'utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete, atte a dar ragione del saldo maturato all'inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto. A tal fine, ci si può inoltre avvalere di tutti quegli elementi, desunti anche da altri documenti o da ammissioni delle stesse parti, i quali consentano di affermare che il debito, nell'intervallo temporale non documentato, sia inesistente o inferiore al saldo passivo iniziale del primo degli estratti conto prodotti o che permettano addirittura di affermare che in quell'arco di tempo sia maturato un credito per il cliente stesso. Diversamente, si devono elaborare i conteggi partendo dal primo saldo debitore documentato.
DONAZIONE
Cass. civ., Sez. V, Ord., 22 aprile 2021, n. 10666 - 28 aprile 2021
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Foro di Nocera Inferiore
Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché l'acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l'eliminazione dello stato di compressione in cui l'interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell'appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto. L'atto di rinuncia a titolo gratuito al diritto di usufrutto è soggetto all'imposta prevista dal D.Lgs. n. 346 del 1990 poiché esso rientra nell'ambito degli atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento, in virtù dell'effetto di arricchimento del beneficiario conseguente alla rinuncia al diritto da parte del suo titolare.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché l'acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l'eliminazione dello stato di compressione in cui l'interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell'appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto. L'atto di rinuncia a titolo gratuito al diritto di usufrutto è soggetto all'imposta prevista dal D.Lgs. n. 346 del 1990 poiché esso rientra nell'ambito degli atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento, in virtù dell'effetto di arricchimento del beneficiario conseguente alla rinuncia al diritto da parte del suo titolare.
SANZIONI CIRCOLAZIONE STRADALE
Corte cost., 16 aprile 2021, n. 68 - pubblicato il 22 aprile 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell'art. 222, comma 2, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Non appare, in effetti, costituzionalmente tollerabile che taluno debba rimanere soggetto per cinque anni, anziché per un periodo di tempo nettamente minore, ad una sanzione inibitoria della guida di veicoli a motore – con tutte le limitazioni che ciò comporta nella vita contemporanea, compresa l'impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa – inflittagli sulla base di una norma che, all'indomani del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è stata riconosciuta contrastante con la Costituzione. Ciò, quando invece il condannato a una, anche modesta, pena pecuniaria potrebbe giovarsi, finché non è eseguita, della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale che ne mitighi l'importo.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell'art. 222, comma 2, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Non appare, in effetti, costituzionalmente tollerabile che taluno debba rimanere soggetto per cinque anni, anziché per un periodo di tempo nettamente minore, ad una sanzione inibitoria della guida di veicoli a motore – con tutte le limitazioni che ciò comporta nella vita contemporanea, compresa l'impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa – inflittagli sulla base di una norma che, all'indomani del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è stata riconosciuta contrastante con la Costituzione. Ciò, quando invece il condannato a una, anche modesta, pena pecuniaria potrebbe giovarsi, finché non è eseguita, della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale che ne mitighi l'importo.
ALIMENTI E MANTENIMENTO
Cass. civ., Sez. III, Ord., 13 aprile 2021, n. 9700 - pubblicato il 20 aprile 2021
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La determinazione dell'assegno di mantenimento dei figli, da parte del coniuge separato, risponde ad un superiore interesse che non è disponibile dalle parti. Sicché, una volta stabilito nel provvedimento giudiziale chi debba essere il debitore, e chi il creditore di quella obbligazione, tale provvedimento non è suscettibile di essere posto nel nulla per effetto di un successivo accordo tra i soggetti obbligati.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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La determinazione dell'assegno di mantenimento dei figli, da parte del coniuge separato, risponde ad un superiore interesse che non è disponibile dalle parti. Sicché, una volta stabilito nel provvedimento giudiziale chi debba essere il debitore, e chi il creditore di quella obbligazione, tale provvedimento non è suscettibile di essere posto nel nulla per effetto di un successivo accordo tra i soggetti obbligati.
LICENZIAMENTO
Corte cost., 1° aprile 2021, n. 59 - pubblicato l'8 aprile 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 18, 7° comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, "può altresì applicare" invece che "applica altresì", la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma. L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L'insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 18, 7° comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, "può altresì applicare" invece che "applica altresì", la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma. L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L'insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
Cass. civ., Sez. V, Ord., 23 marzo 2021, n. 8031 - pubblicato il 26 marzo 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di ermeneutica contrattuale, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un'indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell'ipotesi di violazione dei canoni legali d'interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In tema di ermeneutica contrattuale, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un'indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell'ipotesi di violazione dei canoni legali d'interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali.
IUS SEPULCHRI
Cass. civ., Sez. VI, 22 marzo 2021, n. 8020 - pubblicato il 26 marzo 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In mancanza di una specifica disposizione del fondatore, lo ius sepulchri d'indole gentilizia deve essere riconosciuto ai parenti a quello più vicini per vincolo di sangue, e particolarmente a quelli che facevano parte dell'organico nucleo familiare, strettamente inteso, cui apparteneva il defunto al momento della morte; tale diritto, infatti, pur non essendo precisato in disposizioni di legge, trova il suo fondamento in un'antica consuetudine conforme al sentimento comune e alle esigenze di culto e di pietà per i defunti e, quando viene esercitato dai prossimi congiunti, realizza, allo stesso tempo, la tutela indiretta di un interesse concernente la persona del defunto e l'esigenza sociale di far scegliere ai soggetti più interessati la località e il punto da essi ritenuti più adatti a manifestare i loro sentimenti di devozione e di culto verso il prossimo parente defunto.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In mancanza di una specifica disposizione del fondatore, lo ius sepulchri d'indole gentilizia deve essere riconosciuto ai parenti a quello più vicini per vincolo di sangue, e particolarmente a quelli che facevano parte dell'organico nucleo familiare, strettamente inteso, cui apparteneva il defunto al momento della morte; tale diritto, infatti, pur non essendo precisato in disposizioni di legge, trova il suo fondamento in un'antica consuetudine conforme al sentimento comune e alle esigenze di culto e di pietà per i defunti e, quando viene esercitato dai prossimi congiunti, realizza, allo stesso tempo, la tutela indiretta di un interesse concernente la persona del defunto e l'esigenza sociale di far scegliere ai soggetti più interessati la località e il punto da essi ritenuti più adatti a manifestare i loro sentimenti di devozione e di culto verso il prossimo parente defunto.
COMMERCIO DI VENDITA AL PUBBLICO
Corte cost., 9 marzo 2021, n. 31 - pubblicato il 12 marzo 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 2, 3 e 4 della legge della Regione Toscana 10 dicembre 2019, n. 75 (Norme per incentivare l'introduzione dei prodotti a chilometro zero provenienti da filiera corta nelle mense scolastiche), per violazione degli artt. 117, comma 2, lett. e) e 120 Cost.. Ed infatti, l'ordinamento consente, al fine di promuovere l'utilizzo dei prodotti da filiera corta o a chilometro zero, la previsione di criteri premiali nelle procedure di affidamento del servizio di ristorazione collettiva, ma ciò non comporta la possibilità per le Regioni di dare una priorità agli alimenti prodotti o trasformati all'interno dei confini regionali. Le procedure di selezione dei concorrenti e i criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici sono ascrivibili alla materia della "tutela della concorrenza" di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. – che riflette la definizione operante in ambito comunitario – nella specie alla concorrenza "per il mercato". Di talché, disposizioni recanti un titolo preferenziale per l'utilizzo di prodotti agricoli di origine regionale non solo non favoriscono la concorrenza, ma chiaramente la alterano, privilegiando gli imprenditori che impiegano tali prodotti e non quelli con caratteristiche analoghe, ancorché provenienti da aree che, sebbene fuori Regione, ben possono trovarsi a distanza uguale o minore dal luogo di consumo; il che si risolve altresì in un ostacolo alla libera circolazione delle merci ai sensi, sia dell'art. 120 Cost., sia del diritto europeo, con conseguente declaratoria di incostituzionalità delle citate disposizioni di legge. Il legislatore toscano, in conclusione, pur perseguendo il fine di valorizzare i prodotti del territorio – di per sé non illegittimo e, non a caso, non censurato dallo Stato – realizza siffatto obiettivo favorendo i prodotti ed i produttori regionali, con una evidente discriminazione per chi faccia uso di prodotti di diversa provenienza.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 2, 3 e 4 della legge della Regione Toscana 10 dicembre 2019, n. 75 (Norme per incentivare l'introduzione dei prodotti a chilometro zero provenienti da filiera corta nelle mense scolastiche), per violazione degli artt. 117, comma 2, lett. e) e 120 Cost.. Ed infatti, l'ordinamento consente, al fine di promuovere l'utilizzo dei prodotti da filiera corta o a chilometro zero, la previsione di criteri premiali nelle procedure di affidamento del servizio di ristorazione collettiva, ma ciò non comporta la possibilità per le Regioni di dare una priorità agli alimenti prodotti o trasformati all'interno dei confini regionali. Le procedure di selezione dei concorrenti e i criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici sono ascrivibili alla materia della "tutela della concorrenza" di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. – che riflette la definizione operante in ambito comunitario – nella specie alla concorrenza "per il mercato". Di talché, disposizioni recanti un titolo preferenziale per l'utilizzo di prodotti agricoli di origine regionale non solo non favoriscono la concorrenza, ma chiaramente la alterano, privilegiando gli imprenditori che impiegano tali prodotti e non quelli con caratteristiche analoghe, ancorché provenienti da aree che, sebbene fuori Regione, ben possono trovarsi a distanza uguale o minore dal luogo di consumo; il che si risolve altresì in un ostacolo alla libera circolazione delle merci ai sensi, sia dell'art. 120 Cost., sia del diritto europeo, con conseguente declaratoria di incostituzionalità delle citate disposizioni di legge. Il legislatore toscano, in conclusione, pur perseguendo il fine di valorizzare i prodotti del territorio – di per sé non illegittimo e, non a caso, non censurato dallo Stato – realizza siffatto obiettivo favorendo i prodotti ed i produttori regionali, con una evidente discriminazione per chi faccia uso di prodotti di diversa provenienza.
LICENZIAMENTO
Cass. civ., Sez. lavoro, 4 marzo 2021, n. 6085 - pubblicato il 9 marzo 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'art. 3 della legge n. 604 del 1966 richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati - diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. (Nel caso di specie, relativo ad una controversia insorta a seguito del licenziamento intimato ad un medico da parte di una società esercente una casa di cura privata, la Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha ritenuto incensurabile la sentenza impugnata, avendo il giudice di appello applicato correttamente i suddetti principi, individuando nella crisi economica in cui versava la predetta società l'esigenza di procedere ad una riorganizzazione realizzata attraverso la soppressione del posto di lavoro del ricorrente, unico medico rimasto privo di specializzazione al quale era precluso l'esercizio di attività operatoria in sala oramai sola rimasta attiva per effetto di una modifica della convenzione intervenuta con l'amministrazione regionale.)
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'art. 3 della legge n. 604 del 1966 richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati - diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. (Nel caso di specie, relativo ad una controversia insorta a seguito del licenziamento intimato ad un medico da parte di una società esercente una casa di cura privata, la Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha ritenuto incensurabile la sentenza impugnata, avendo il giudice di appello applicato correttamente i suddetti principi, individuando nella crisi economica in cui versava la predetta società l'esigenza di procedere ad una riorganizzazione realizzata attraverso la soppressione del posto di lavoro del ricorrente, unico medico rimasto privo di specializzazione al quale era precluso l'esercizio di attività operatoria in sala oramai sola rimasta attiva per effetto di una modifica della convenzione intervenuta con l'amministrazione regionale.)
MALATTIA - PUBBLICO IMPIEGO
Corte cost., 3 marzo 2021, n. 28 - pubblicato l'8 marzo 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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E' fondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 68, comma 3, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 32 della Cost., nella parte in cui, per il caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti, non esclude dal computo dei consentiti diciotto mesi di assenza per malattia, i giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital e quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie. Va premesso che per i dipendenti pubblici, così come per i lavoratori del settore privato, la malattia come causa di sospensione del rapporto di lavoro è regolata dall'art. 2110 c.c., il quale, nell'affermare in via di principio la conservazione del posto di lavoro ed il relativo trattamento economico, rinvia per gli aspetti quantitativi e temporali alla legge o al contratto collettivo di riferimento. In linea generale i due tipi di rapporto di lavoro presentano caratteristiche strutturali che con l'andare del tempo si sono sempre più differenziate, e ciò lungi dal potersi considerare un'anomalia, suscettibile di censura ai sensi del principio di uguaglianza, risponde alle obiettive differenze di status, legate al carattere privatizzato o meno del rapporto. Il mancato riconoscimento del periodo di comporto manifesta una intrinseca irrazionalità che lo rende costituzionalmente illegittimo per violazione, sotto questo diverso profilo, dell'art. 3 Cost., con assorbimento del residuo parametro (art. 32 Cost.). Esso infatti è la manifestazione di un ritardo storico del legislatore rispetto alla contrattazione collettiva. Quest'ultima, con la sua naturale dinamicità, è stata in grado di tener conto del progressivo sviluppo dei protocolli di cura per le gravi patologie e in particolare delle cosiddette terapie salvavita con i loro pesanti effetti invalidanti; ciò al contrario non è avvenuto per la disciplina normativa, che, risalente ad anni ormai lontani, non è più adeguata al contesto attuale, caratterizzato dalla profonda evoluzione delle terapie.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
E' fondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 68, comma 3, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 32 della Cost., nella parte in cui, per il caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti, non esclude dal computo dei consentiti diciotto mesi di assenza per malattia, i giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital e quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie. Va premesso che per i dipendenti pubblici, così come per i lavoratori del settore privato, la malattia come causa di sospensione del rapporto di lavoro è regolata dall'art. 2110 c.c., il quale, nell'affermare in via di principio la conservazione del posto di lavoro ed il relativo trattamento economico, rinvia per gli aspetti quantitativi e temporali alla legge o al contratto collettivo di riferimento. In linea generale i due tipi di rapporto di lavoro presentano caratteristiche strutturali che con l'andare del tempo si sono sempre più differenziate, e ciò lungi dal potersi considerare un'anomalia, suscettibile di censura ai sensi del principio di uguaglianza, risponde alle obiettive differenze di status, legate al carattere privatizzato o meno del rapporto. Il mancato riconoscimento del periodo di comporto manifesta una intrinseca irrazionalità che lo rende costituzionalmente illegittimo per violazione, sotto questo diverso profilo, dell'art. 3 Cost., con assorbimento del residuo parametro (art. 32 Cost.). Esso infatti è la manifestazione di un ritardo storico del legislatore rispetto alla contrattazione collettiva. Quest'ultima, con la sua naturale dinamicità, è stata in grado di tener conto del progressivo sviluppo dei protocolli di cura per le gravi patologie e in particolare delle cosiddette terapie salvavita con i loro pesanti effetti invalidanti; ciò al contrario non è avvenuto per la disciplina normativa, che, risalente ad anni ormai lontani, non è più adeguata al contesto attuale, caratterizzato dalla profonda evoluzione delle terapie.
CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO
Cass. civ., Sez. lavoro, 15 febbraio 2021, n. 3815 - pubblicato il 18 febbraio 2021
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Foro di Nocera Inferiore
Nel lavoro pubblico contrattualizzato, ai fini del risarcimento del danno spettante al lavoratore nell'ipotesi di illegittima o abusiva reiterazione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, deve farsi riferimento alla fattispecie di portata generale di cui all'art. 32, comma 5 della L. 4 novembre 2010 n. 183, da configurare come corrispondente ad un danno presunto, con valenza sanzionatoria qualificabile come danno comunitario, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, che non può comunque farsi derivare dalla perdita del posto (in assenza di una assunzione tramite concorso ex art. 97, ultimo comma Cost.). Ciò non dà luogo ad una posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l'indennità forfetizzata agevola l'onere probatorio del danno subìto, pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore, mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Nel lavoro pubblico contrattualizzato, ai fini del risarcimento del danno spettante al lavoratore nell'ipotesi di illegittima o abusiva reiterazione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, deve farsi riferimento alla fattispecie di portata generale di cui all'art. 32, comma 5 della L. 4 novembre 2010 n. 183, da configurare come corrispondente ad un danno presunto, con valenza sanzionatoria qualificabile come danno comunitario, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, che non può comunque farsi derivare dalla perdita del posto (in assenza di una assunzione tramite concorso ex art. 97, ultimo comma Cost.). Ciò non dà luogo ad una posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l'indennità forfetizzata agevola l'onere probatorio del danno subìto, pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore, mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico.
REDDITI DIVERSI
Cass. civ., Sez. V, Ord., 10 febbraio 2021, n. 3243 - pubblicato il 16 febbraio 2021
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Foro di Nocera Inferiore
In tema di imposte sui redditi, per escludere l'imponibilità ai fini Irpef delle plusvalenze da redditi diversi, conseguibile dalla cessione di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, prevista dall'art. 67, comma 1, lettera b), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è irrilevante che il terreno ceduto si trovi all'interno di zona vincolata ad utilizzo meramente pubblicistico, dovendosi avere riguardo alla destinazione effettiva dell'area, in quanto la potenzialità edificatoria, desumibile dagli strumenti urbanistici, adottati o in via di adozione, oltre che da altri elementi, costituisce indice di capacità contributiva ex art. 53 Cost. I vincoli o le destinazioni per finalità pubbliche possono incidere nella determinazione del valore venale del terreno, ma non possono escludere del tutto l'oggettivo carattere edificabile. L'unico limite alla sottoposizione dell'operazione di cessione del terreno al regime delle plusvalenze deve riconoscersi nell'ipotesi del vincolo assoluto di inedificabilità, apposto anche da autorità sovraordinate agli Enti che presidiano alla formazione degli strumenti urbanistici, idoneo a neutralizzare ogni utilizzazione edificatoria del terreno, e anche in questo caso si rende necessario accertare se il limite assoluto su determinate superfici operi con compensazioni, ossia con lo scambio e maggiorazione degli indici di fabbricabilità, riconosciuti a favore di terreni limitrofi, che tornino utili anche al cedente. Una spia dell'utilizzabilità edificatoria del terreno (ancorché indiretta ed in senso puramente economico) è data dal corrispettivo della cessione del terreno, quando esso, nonostante l'apparente assoluta inedificabilità, configuri un prezzo ben più elevato del normale valore agricolo corrente nella zona in cui l'operazione economica si è perfezionata.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In tema di imposte sui redditi, per escludere l'imponibilità ai fini Irpef delle plusvalenze da redditi diversi, conseguibile dalla cessione di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, prevista dall'art. 67, comma 1, lettera b), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è irrilevante che il terreno ceduto si trovi all'interno di zona vincolata ad utilizzo meramente pubblicistico, dovendosi avere riguardo alla destinazione effettiva dell'area, in quanto la potenzialità edificatoria, desumibile dagli strumenti urbanistici, adottati o in via di adozione, oltre che da altri elementi, costituisce indice di capacità contributiva ex art. 53 Cost. I vincoli o le destinazioni per finalità pubbliche possono incidere nella determinazione del valore venale del terreno, ma non possono escludere del tutto l'oggettivo carattere edificabile. L'unico limite alla sottoposizione dell'operazione di cessione del terreno al regime delle plusvalenze deve riconoscersi nell'ipotesi del vincolo assoluto di inedificabilità, apposto anche da autorità sovraordinate agli Enti che presidiano alla formazione degli strumenti urbanistici, idoneo a neutralizzare ogni utilizzazione edificatoria del terreno, e anche in questo caso si rende necessario accertare se il limite assoluto su determinate superfici operi con compensazioni, ossia con lo scambio e maggiorazione degli indici di fabbricabilità, riconosciuti a favore di terreni limitrofi, che tornino utili anche al cedente. Una spia dell'utilizzabilità edificatoria del terreno (ancorché indiretta ed in senso puramente economico) è data dal corrispettivo della cessione del terreno, quando esso, nonostante l'apparente assoluta inedificabilità, configuri un prezzo ben più elevato del normale valore agricolo corrente nella zona in cui l'operazione economica si è perfezionata.
PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Cass. civ., Sez. III, Ord., 26 gennaio 2021, n. 1709 - pubblicato il 2 febbraio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Deve rilevarsi che, anche nella materia della protezione internazionale, ove si applichi il rito sommario di cognizione ed il ricorrente, anche nel grado d'appello, non mostri interesse ad una decisione di merito (attraverso un comportamento consapevole, ossia la doppia mancata comparizione preceduta da regolare comunicazione dell'udienza di rinvio) deve ritenersi applicabile il meccanismo estintivo disciplinato dagli artt. 309 e 181 c.p.c., ordinariamente vigenti nel rito prescelto dal legislatore, dovendosi escludere che la dichiarazione di estinzione del giudizio possa configurare, in tale situazione, un pregiudizio né per i diritti fondamentali del richiedente asilo la cui condotta processuale è affidata alla responsabilità del difensore, né per l'interesse della controparte pubblica che, ove intenda arrestare il meccanismo estintivo, ben può comparire dinanzi al giudice e richiedere la decisione.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Deve rilevarsi che, anche nella materia della protezione internazionale, ove si applichi il rito sommario di cognizione ed il ricorrente, anche nel grado d'appello, non mostri interesse ad una decisione di merito (attraverso un comportamento consapevole, ossia la doppia mancata comparizione preceduta da regolare comunicazione dell'udienza di rinvio) deve ritenersi applicabile il meccanismo estintivo disciplinato dagli artt. 309 e 181 c.p.c., ordinariamente vigenti nel rito prescelto dal legislatore, dovendosi escludere che la dichiarazione di estinzione del giudizio possa configurare, in tale situazione, un pregiudizio né per i diritti fondamentali del richiedente asilo la cui condotta processuale è affidata alla responsabilità del difensore, né per l'interesse della controparte pubblica che, ove intenda arrestare il meccanismo estintivo, ben può comparire dinanzi al giudice e richiedere la decisione.
REMISSIONE DEL DEBITO
Cass. civ., Sez. III, Ord., 26 gennaio 2021, n. 1724 - pubblicato il 2 febbraio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcuna altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione. Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l'omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcuna altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione. Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l'omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito.
IMPRESA FAMILIARE
Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 22 gennaio 2021, n. 1401 - pubblicato il 27 gennaio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di impresa familiare, la determinazione della partecipazione agli utili ed agli incrementi del familiare deve essere effettuata in relazione al valore complessivo dell'impresa, per cui se l'incremento di valore di un fattore della produzione si è tradotto in un aumento di redditività della impresa medesima non è dato scorporare dalla stessa la componente riferibile a fattori che si assumono del tutto estranei all'attività prestata dal partecipante lavoro; analogamente, il verificarsi nel corso della vita dell'impresa di fattori di decremento dei beni con riflessi sulla produttività della stessa, non può che riverberarsi sulla concreta liquidazione della quota del partecipante.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In tema di impresa familiare, la determinazione della partecipazione agli utili ed agli incrementi del familiare deve essere effettuata in relazione al valore complessivo dell'impresa, per cui se l'incremento di valore di un fattore della produzione si è tradotto in un aumento di redditività della impresa medesima non è dato scorporare dalla stessa la componente riferibile a fattori che si assumono del tutto estranei all'attività prestata dal partecipante lavoro; analogamente, il verificarsi nel corso della vita dell'impresa di fattori di decremento dei beni con riflessi sulla produttività della stessa, non può che riverberarsi sulla concreta liquidazione della quota del partecipante.
PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Cass. civ., Sez. III, Ord., 12 gennaio 2021, n. 265- pubblicato il 18 gennaio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di protezione internazionale, la valutazione effettuata dal giudice del merito in ordine al giudizio di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, oltre a rispondere ai criteri predicati dall'art. 3 del D.Lgs. n. 251 del 2007, deve essere anche argomentata in modo idoneo a rivelare la relativa "ratio decidendi", senza essere basata, invece, su elementi irrilevanti o su notazioni, che, essendo prive di riscontri processuali, abbiano la loro fonte nella mera opinione del giudice cosicché il relativo giudizio risulti privo della conclusione razionale. Tale valutazione non può ritenersi volta alla capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione dei fatti accaduti, ma postula una valutazione complessiva del racconto e l'osservanza del principio, di cui all'art. 3, comma 5, lett. e, D.Lgs. n. 251 del 2007 secondo cui nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se la narrazione è, in generale, attendibile con ciò intendendosi attribuire a tale inciso un significato di globalità, del tutto opposto alla atomizzazione delle circostanze narrate.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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In tema di protezione internazionale, la valutazione effettuata dal giudice del merito in ordine al giudizio di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, oltre a rispondere ai criteri predicati dall'art. 3 del D.Lgs. n. 251 del 2007, deve essere anche argomentata in modo idoneo a rivelare la relativa "ratio decidendi", senza essere basata, invece, su elementi irrilevanti o su notazioni, che, essendo prive di riscontri processuali, abbiano la loro fonte nella mera opinione del giudice cosicché il relativo giudizio risulti privo della conclusione razionale. Tale valutazione non può ritenersi volta alla capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione dei fatti accaduti, ma postula una valutazione complessiva del racconto e l'osservanza del principio, di cui all'art. 3, comma 5, lett. e, D.Lgs. n. 251 del 2007 secondo cui nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se la narrazione è, in generale, attendibile con ciò intendendosi attribuire a tale inciso un significato di globalità, del tutto opposto alla atomizzazione delle circostanze narrate.
COLLOCAMENTO A RIPOSO D'UFFICIO
Cass. civ., Sez. lavoro, 8 gennaio 2021, n. 150 - pubblicato il 13 gennaio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
La facoltà di collocamento a riposo d'ufficio nel lavoro pubblico contrattualizzato, prevista dall'art. 12, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, in ragione del raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni richiede una motivazione, ancor più necessaria in difetto di un formale atto organizzativo, che consenta il controllo di legalità sull'appropriatezza della risoluzione del rapporto rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita, sicché la sua mancanza viola i principi generali di correttezza e buona fede, il principio dell'imparzialità e buon andamento della P.A., le norme imperative che richiedono la rispondenza dell'azione amministrativa al pubblico interesse e l'art. 6, comma 1, della direttiva 18/200 O/CE. (Il caso di specie, riguarda un recesso intimato prima della riforma di cui al d.l. 98/2011, per cui la disciplina applicabile è quella precedente a detta riforma).
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
La facoltà di collocamento a riposo d'ufficio nel lavoro pubblico contrattualizzato, prevista dall'art. 12, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, in ragione del raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni richiede una motivazione, ancor più necessaria in difetto di un formale atto organizzativo, che consenta il controllo di legalità sull'appropriatezza della risoluzione del rapporto rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita, sicché la sua mancanza viola i principi generali di correttezza e buona fede, il principio dell'imparzialità e buon andamento della P.A., le norme imperative che richiedono la rispondenza dell'azione amministrativa al pubblico interesse e l'art. 6, comma 1, della direttiva 18/200 O/CE. (Il caso di specie, riguarda un recesso intimato prima della riforma di cui al d.l. 98/2011, per cui la disciplina applicabile è quella precedente a detta riforma).
DEMANSIONAMENTO
Cass. civ., Sez. lavoro, 5 gennaio 2021, n. 15 - pubblicato l'11 gennaio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di demansionamento, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. La relativa prova spetta al lavoratore, il quale, tuttavia, non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
In tema di demansionamento, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. La relativa prova spetta al lavoratore, il quale, tuttavia, non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.
appalto opere pubbliche
T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, 4 gennaio 2021, n. 11 - pubblicato il 11 gennaio 2021
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
Foro di Nocera Inferiore
Il giudizio in merito all'anomalia o all'incongruità di un'offerta ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale, riservato alla pubblica amministrazione, il quale è insindacabile in sede giurisdizionale, a meno che non siano ravvisabili ipotesi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell'operato della commissione di gara che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta. Anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti rientra nella discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della pubblica amministrazione. Il giudizio non è estensibile ad un'autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci.
a cura dell'Avv. Gaetano Riccio - Avv. Eliana Libroia
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Il giudizio in merito all'anomalia o all'incongruità di un'offerta ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale, riservato alla pubblica amministrazione, il quale è insindacabile in sede giurisdizionale, a meno che non siano ravvisabili ipotesi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell'operato della commissione di gara che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta. Anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti rientra nella discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della pubblica amministrazione. Il giudizio non è estensibile ad un'autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci.