POSIZIONE DI GARANZIA E OMICIDIO COLPOSO: I “CONCRETI” POTERI IMPEDITIVI DELL’OFFESA AL BENE GARANTITO
LA MASSIMA “Perché un soggetto assuma una posizione di garanzia, dal che la rilevanza causale della sua negligente condotta omissiva, è necessario che un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica - anche negoziale - abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato”. LA NOTA La sentenza in commento è spunto di assoluto pregio ed interesse per tentare di approfondire la complessa problematica dei c.d. reati omissivi, valorizzando in particolare un aspetto, costituito dalla concreta possibilità per il titolare della posizione di garanzia di evitare la lesione del bene protetto, troppo spesso posto in secondo piano rispetto ad altri profili logicamente e giuridicamente presupposti, quali ad esempio la fonte o lo specifico contenuto dell’obbligo giuridico di garanzia. Com’è noto, la categoria del reato omissivo trae origine dalla bipartizione della condotta penalmente rilevante in attiva e omissiva, intendendo con quest’ultimo termine il mancato compimento di un’azione “possibile” che il soggetto ha il dovere giuridico di compiere. La doverosità dell’azione richiesta è, pertanto, la caratteristica che distingue e converte la mera inerzia in omissione giuridicamente rilevante: mentre la prima può definirsi un nihil facere, ossia un comportamento giuridicamente irrilevante e addirittura costituzionalmente legittimo qualora sia espressione della libertà riconosciuta a ciascun individuo, la seconda consiste in un non facere quod debetur, ovverosia nel contravvenire ad un obbligo giuridicamente imposto. Nel diritto penale moderno è largamente condivisa l’opinione secondo cui i reati omissivi costituiscono il bilanciamento di due opposte esigenze: da un lato, quella di garantire al singolo la propria libertà e, dall’altro, quella di tutelare, in un’ottica di solidarietà e precauzione, i terzi dalle altrui aggressioni e da determinate fonti di pericolo. In tal senso, la dottrina più autorevole ne ha individuato nella Costituzione sia il fondamento, da rinvenirsi appunto nel dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., sia i limiti identificati rispettivamente nei principi di libertà (art. 13 Cost.), di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) e di materialità-offensività (art. 25 Cost.). Per quanto riguarda poi la struttura di questa tipologia di reati, si distingue tra reato omissivo proprio (o di pura omissione) e reato omissivo improprio (o di non impedimento). Il primo consiste nel mancato compimento dell’azione comandata, per la sussistenza del quale non occorre il verificarsi di alcun evento. Si tratta, dunque, di reati di mera condotta previsti tanto dalla parte speciale del codice penale (ad esempio, gli artt. 328 e 593 c.p.) quanto da diverse norme della legislazione speciale (ad esempio, l’art. 5 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sull’omessa dichiarazione dei redditi). Il reato omissivo improprio consiste, invece, nel mancato impedimento di un evento materiale che si aveva l’obbligo giuridico di impedire. Trattasi, pertanto, di reati di evento nei quali il legislatore non attribuisce importanza all’omissione in sé, ma solo nella misura in cui la stessa è causa del non impedimento e, quindi, del verificarsi dell’evento. Questi ultimi sono in parte previsti direttamente dal codice nella parte generale o speciale (si pensi al reato commesso dal direttore responsabile di un periodico di cui all’art. 57 c.p. ovvero al reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone non impedendo strepitii di animali di cui all’art. 659 c.p.), ed in parte, e più comunemente, nascenti dal combinato disposto tra la singola norma di parte speciale che prevede il reato in forma attiva e la clausola di equivalenza fissata dall’art. 40, comma 2, c.p. (a mente del quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo”). I requisiti di questa sub categoria di reati omissivi (ribaditi da ultimo proprio dalla sentenza in commento) sono stati, nel corso degli anni, oggetto di una approfondita trattazione dottrinale e giurisprudenziale che ne ha consentito l’individuazione nell’obbligo giuridico di impedire la lesione del bene protetto, comportante l’esistenza di una fonte da cui lo stesso scaturisce, nella condotta omissiva, nell’evento e, naturalmente, nel nesso di causalità tra l’omissione e l’evento stesso. Tra le condizioni appena indicate la prima si presenta indubbiamente molto controversa, in ragione della sua evidente genericità e dell’ampiezza delle situazioni giuridiche ad essa riconducibili. Invero, in ordine all’individuazione della fonte dell’obbligo, si sono registrate tre diverse teorie. Secondo la teoria c.d. formale, un obbligo rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p. può nascere soltanto in virtù della sua pregressa previsione da parte della legge, accogliendo però un’accezione in senso lato di questo termine, idonea perciò a ricomprendere non solo gli atti parlamentari, ma anche gli atti normativi o amministrativi (che, in base al principio di legalità, trovano comunque il loro referente nella legge), i contratti (che ex art. 1372 c.c. hanno forza di legge tra le parti), la consuetudine, la negotiorum gestio(art. 2028 c.c.) e, secondo alcuni, la precedente attività pericolosa (Cass. pen., sez. III, 30 gennaio 2008, n. 4730; Cass. pen., sez. III, 28 gennaio 2003, n. 15165; Cass. pen., sez. IV, 25 gennaio 2001, n. 1215). Tale teoria, sebbene meritevole di apprezzamento per l’intento garantista da cui è mossa, è stata oggetto di critiche per il suo eccessivo formalismo e per la sua incoerenza. Sotto il primo aspetto, infatti, è stato osservato che accettare in toto una simile tesi porta a delle condizioni inaccettabili: da un lato, si tende a trascurare del tutto il rilevante aspetto dell’effettiva presa in carico del bene, provocando il rischio che il soggetto possa essere chiamato a rispondere anche quando il bene protetto non gli sia stato in concreto affidato; dall’altro lato, al contrario, si tende a far dipendere la sorte degli obblighi in questione dagli eventuali problemi di invalidità del contratto o del provvedimento amministrativo, pur in presenza della presa in carico del bene. Per quanto riguarda il secondo profilo, inoltre, si rileva un’incoerenza quando, pur richiedendosi, la necessità di un’espressa previsione ex lege delle singole fonti dell’obbligo di garanzia, si ammette che l’obbligo di impedire l’evento possa scaturire dalla precedente attività pericolosa, ossia da un’attività meramente materiale. Una seconda ricostruzione, detta teoria funzionale, risolve tali inconvenienti attribuendo rilievo non ad un obbligo “formale” di impedire l’evento, quanto all’esistenza di una posizione fattuale di garanzia, ritenuta sussistente nel caso in cui un soggetto possieda un potere di signoria in ordine alla possibile verificazione di determinati eventi lesivi a danno del bene protetto. La posizione di garanzia si considera così costituita da uno speciale vincolo di tutela che esiste tra garante e bene giuridico, in virtù di quella effettiva presa in carico della tutela del secondo da parte del primo, trascurata dalla teoria formale (in tal senso Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795; Cass. pen., sez. IV, 4 luglio 2007, n. 25527; Cass. pen., sez. IV, 12 ottobre 2000, n. 12781). Anche questa tesi, però, si presta a critica poiché si disinteressa completamente della fonte formale della suddetta posizione e, quindi, confligge con il principio di legalità, in virtù del quale nel nostro ordinamento il reato deve essere previsto dalla legge e non può trarsi da una situazione fattuale. La risposta a tale censura è stata fornita da una terza teoria, definita mista o eclettica, che, nell’ottica di una conciliazione delle opposte esigenze di legalità ed effettività, integra le due tesi sopra esposte, ricomprendendo tra le situazioni di obbligo di garanzia gravanti sul soggetto agente e scaturenti dall’ordinamento giuridico (legge, regolamento, atto amministrativo, contratto ecc.) soltanto quelle in cui il soggetto abbia “concreti” poteri impeditivi dell’offesa al bene da tutelare. Secondo questa tesi mediana, pertanto, la posizione di garanzia presuppone da un lato l’effettiva presa in carico della tutela del bene da parte del soggetto, individuando in tal modo una relazione funzionale intercorrente tra quest’ultimo e il bene protetto, e dall’altro lato un fondamento giuridico che costituisca la fonte legale generatrice dell’obbligo di garanzia (ex plurimus Cass. pen., sez. IV, 21 maggio 1998, n. 8217). Alla luce di tali considerazioni, appare corretto sostenere che sussiste responsabilità a titolo omissivo improprio quando il singolo individuo è titolare di un obbligo giuridico di garanzia, intendendosi con tale espressione l’obbligo giuridico, gravante su specifiche categorie predeterminate di soggetti previamente forniti di adeguati poteri di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di proteggerli adeguatamente. Ne consegue che un obbligo di garanzia, così inteso, debba necessariamente presentare tre tratti caratteristici da individuarsi rispettivamente nella giuridicità dell’obbligo, nella specificità dei destinatari di esso e, infine, nel possesso dei relativi poteri impeditivi. Proprio sulla necessaria coesistenza degli elementi appena citati ed, in particolare, sulla “valutazione in concreto” dell’ultimo di essi, si sofferma la recente sentenza n. 38024 depositata il 1° ottobre 2012 dalla IV Sezione penale della Corte di Cassazione. Nel caso di specie, i giudici di Piazza Cavour sono stati chiamati a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un assistente bagnante, accusato di omicidio colposo in danno di un minore per avere omesso di vigilare adeguatamente la piscina presso cui lavorava e, di conseguenza, di non aver soccorso tempestivamente il bambino, poi deceduto per annegamento. Nei confronti dell’imputato veniva pronunciata dal GUP del Tribunale per i Minorenni di Trieste una sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto, avverso la quale il Procuratore Generale presso la competente Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione. La Suprema Corte si è espressa dapprima sul motivo di impugnazione attinente la ricostruzione dell’intera vicenda e la condotta tenuta dal bagnino. Il Procuratore Generale, infatti, lamentava che il GUP, nella valutazione dei fatti, avesse trascurato la possibilità che, al momento dell’annegamento del bambino, l’imputato non fosse presente sul piano vasca, come invece avrebbe dovuto in qualità di soggetto obbligato a garantire l’incolumità dei bagnanti. I giudici del Palazzaccio escludono, con una motivazione estremamente stringente e coincisa, che la censura proposta possa essere presa in considerazione poiché essa equivarrebbe a contestare all’assistente bagnante una condotta colposa che va al di là del capo di imputazione formulato nei suoi confronti, violando palesemente in tal modo il fondamentale principio processuale di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza di cui all’art. 521 e ss. c.p.p. Decisamente più articolate sono, invece, le considerazioni espresse dalla IV Sezione penale rispetto alle altre doglianze formulate dal Procuratore Generale, il quale deduceva il difetto di motivazione della sentenza impugnata poiché il GUP non aveva tenuto presente che l’imputato potesse riuscire a svolgere adeguatamente il compito di vigilanza assegnatogli, nonostante nell’impianto sportivo fossero presenti tre piscine, in quanto queste ultime erano tutte collocate in un unico locale. Con riferimento a detta censura, i giudici innanzitutto ribadiscono l’orientamento costante secondo cui affinché sussista una posizione di garanzia e, di conseguenza abbia rilevanza penale una negligente condotta omissiva, è necessario che“un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica - anche negoziale - abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato”. In particolare, con riguardo all’ultima delle condizioni indicate, la Corte cita la nota sentenza c.d. Montefibre (Cass. pen., sez. IV, 4 novembre 2010, n. 38991), dal nome dello stabilimento di Verbania dove morirono undici operai che inalarono amianto, che, sebbene pronunciata in una fattispecie molto diversa dal caso che ci occupa, costituisce un precedente dirimente in materia di reati omissivi e di obbligo di garanzia. Nel testo della menzionata decisione, infatti, si legge: “I titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante, è sufficiente che gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari per evitare che l’evento dannoso venga cagionato, per l’operatività di altri elementi condizionanti di natura dinamica. (…) In conclusione può affermarsi che un soggetto è titolare di una posizione di garanzia, se ha la possibilità, con la sua condotta attiva di indirizzare il decorso degli eventi indirizzandoli verso uno sviluppo atto da impedire la lesione del bene giuridico da lui preso in carico.” Nella pronuncia in commento, pertanto, la Corte di Cassazione, accogliendo l’accezione di “poteri impeditivi dell’evento” appena fornita, rigetta il ricorso proposto e conferma l’assenza di responsabilità dell’assistente bagnante in merito alla morte della vittima, in ragione dell’assoluta impossibilità per l’imputato di intervenire per evitare la lesione del bene garantito. I giudici di legittimità, condividendo le argomentazioni esposte dal GUP nella sentenza di non luogo a procedere, fondano il loro convincimento sulle circostanze concrete che connotano la vicenda in esame, prima fra tutte la presenza di un unico bagnino chiamato a controllare contemporaneamente tre vasche, in un impianto sportivo ampio e frequentato al momento del tragico incidente da un numero cospicuo di utenti, tra bagnanti e iscritti ai vari corsi di nuoto. Gli ermellini evidenziano poi un ulteriore e rilevante elemento, osservando che l’imputato, pur espletando il proprio incarico con la dovuta diligenza, non avrebbe potuto rendersi conto del principio di annegamento del bambino, poiché quest’ultimo, come confermato dal C.T. del Pubblico Ministero, non aveva potuto attirare l’attenzione dei presenti con gesti o grida, essendo stato colpito da un malore improvviso passato purtroppo inosservato nella confusione del momento. Infine, a chiusura della decisione, la Corte chiarisce che la mancata disponibilità dell’imputato di mezzi adeguati ad evitare l’evento dannoso verificatosi se, da una parte, consente di escludere la rilevanza causale della sua condotta omissiva, d’altra parte, come peraltro era stato già rilevato dal GUP, consente di valutare la responsabilità penale per i fatti de quibus rispetto ad altri due soggetti, la cui omissione negligente può essere ben ritenuta causalmente legata all’evento, ovverosia l’istruttore della vasca in cui è avvenuto l’annegamento e il gestore della piscina. Il primo, infatti, non si è accorto tempestivamente dell’incidente accorso al minore, pur seguendo il corso di nuoto cui quest’ultimo partecipava quando è stato colpito dal malore; il secondo, invece, avrebbe dovuto garantire la presenza di più assistenti bagnanti, attesa l’ampiezza dell’impianto sportivo gestito e l’elevato numero dei suoi utenti. In conclusione, la pronuncia n. 38024/2012, accogliendo un’ottica garantista, rifiuta la fredda adesione a criteri di tipo formale e valuta la responsabilità penale dell’imputato in concreto. I giudici, infatti, evitano di individuare il nesso eziologico tra la morte della piccola vittima e l’omissione del bagnino nel mero presupposto della sua presenza in piscina, in qualità di titolare della posizione di garanzia, e guardano invece alla concreta impossibilità per quest’ultimo di intervenire per impedire l’annegamento. Appare evidente, allora, il notevole merito della sentenza in commento nella quale si offre una lettura della posizione di garanzia pienamente in armonia con i principi fondamentali dell’ordinamento penale, come quello di legalità (in quanto si richiede la giuridicità dell’obbligo, ossia la sua previsione da parte dell’ordinamento giuridico), di tassatività (atteso che è necessario che la fonte preveda l’ubi consistam del relativo obbligo di garanzia), nonché di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost., nella misura in cui si richiedono appositi poteri impeditivi che evitano il sorgere di responsabilità di posizione. Eliana Libroia |
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