SEQUESTRO PREVENTIVO E CONFISCA PER EQUIVALENTE NEL D. LGS. N. 231/2001.
L’ESTENSIONE AI CONCORRENTI NEL REATO LA MASSIMA “Nel caso di concorso fra la responsabilità individuale dell’autore e quella ex D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso. Il profitto del reato confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico derivante dal fatto illecito”. LA NOTA L’istituto della confisca per equivalente o confiscaad valorem assolve nel nostro ordinamento giuridico una tipica funzione dissuasiva della reiterazione del reato, neutralizzando i vantaggi economici derivanti dall’attività criminosa anche quando, per ragioni differenti, non si abbia la concreta possibilità di rinvenire materialmente nel patrimonio del reo la specifica entità economica che egli abbia direttamente ricavato dalla commissione dell’illecito. Si tratta, dunque, di un provvedimento nato da un’esigenza di ordine pratico, riscontrabile in tutte le ipotesi in cui si presentino notevoli difficoltà nell’individuazione degli specifici beni oggetto dell’apprensione coattiva, soprattutto quando, trattandosi di cose fungibili, esse siano state trasformate o reinvestite in vario modo dall’autore della condotta criminosa. Infatti, mediante la figura della confisca per equivalente, il potere ablatorio dello Stato, di cui tale istituto è espressione, viene disancorato dal suo principale limite costituito dal nesso di pertinenzialità tra bene oggetto di ablazione e reato. Superata questa condicio sine qua non, al fine di impedire che il reo possa trarre benefici economici dalla propria attività illecita, è possibile estendere l’intervento ablatorio a entità patrimoniali che, sebbene non costituiscano diretta derivazione dal reato e non presentino alcun collegamento con la pregressa condotta criminosa, sono comunque rinvenuti nel patrimonio del reo. Con riferimento alla natura della confisca per equivalente, si è posto un delicato problema in materia di individuazione del discrimine tra misura di sicurezza e pena, al di là della concreta qualificazione assegnata alla misura stessa dal legislatore. In un primo momento in giurisprudenza questa figura peculiare di confisca è stata qualificata come una misura di sicurezza patrimoniale, di cui agli artt. 236 ss. c.p., connotata però da un carattere preminentemente sanzionatorio, trattandosi di una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti (Cass. pen., Sez. Un., 25 ottobre 2005, n. 41936; Cass. pen., sez. V, 16 gennaio 2004, n. 15445). Più di recente, invece, si sta consolidando un orientamento secondo cui all’istituto in esame debba essere attribuito il valore di sanzione penale, principalmente per due ordini di motivi. In primo luogo, perché manca il sopraindicato rapporto di pertinenzialità tra reato commesso e beni da confiscare e, in secondo luogo, perché la confisca per equivalente, non colpendo il profitto del reato nella sua unicità, prescinde dalla pericolosità dei beni stessi. In tal senso, è evidente che difetta il presupposto per la sua qualificazione in termini di misura di sicurezza, risultando assente la funzione preventiva e prevalente quella sanzionatoria e afflittiva (Corte Cost., ord. 1 aprile 2009, n. 97; Cass. pen., sez. II, 8 maggio 2008, n. 21566). Va poi osservato che la confisca per equivalente è una sanzione obbligatoria e, di conseguenza, può trovare applicazione solo quando ne ricorrano i presupposti previsti dalla legge, il primo dei quali è costituto dalla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna (o di applicazione della pena su richiesta) per ciascuna delle ipotesi di reato tassativamente previste. La seconda condizione di applicabilità consiste nella non appartenenza del bene ablando a terzi estranei al reato e talvolta è esplicitamente richiesta dal legislatore (è questo il caso dell’art. 322 ter c.p.), mentre talaltra è considerato presupposto indefettibile dalla giurisprudenza (ne sono esempio le pronunce relative al reato di usura di cui all’art. 644 c.p.). A differenza delle due condizioni positive appena descritte, la terza ha un evidente carattere negativo. Essa, alla luce delle motivazioni esposte in apertura, infatti, non può che consistere nelmancato reperimento materiale di entità integranti prezzo o profitto del reato nella sfera giuridico-patrimoniale del reo, con il limite naturalmente di non superare il valore economico del bene che avrebbe dovuto essere confiscato. Ciò posto, è opportuno chiarire che nel nostro ordinamento giuridico sono previste diverse ipotesi di confisca per equivalente e per ciascuna delle quali il legislatore ha dettato una disciplina peculiare. La prima in ordine di tempo è stata la confisca di valore per il reato di usura, introdotta dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha modificato il testo dell’ultimo comma dell’art. 644 c.p., così disponendo: “Nel caso di condanna, o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti di cui al presente articolo, è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono prezzo o profitto del reato ovvero di somme di denaro, beni ed utilità di cui il reo ha la disponibilità anche per interposta persona per un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento dei danni”. Con successivi interventi legislativi sono state introdotte altre ipotesi di confisca ad valorem, tra le quali le più significative sono previste dagli artt. 322-ter e 640 quater c.p. in tema di reati contro la pubblica amministrazione e di frodi in danno delle istituzioni comunitarie, introdotti dall’art. 3 della legge 29 settembre 2000, n. 300; dall’art. 11 della legge 11 marzo 2006, 146, nell’ambito dei reati transnazionali; dall’art. 2641 c.c., riformato dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, in materia di reati societari; dall’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che ha previsto l’applicabilità della confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter c.p. ai reati tributari disciplinati dal d.lgs. n. 74/2000; ed, infine, dalle disposizioni contemplate nel d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in tema di responsabilità degli enti. Proprio l’ultima delle ipotesi richiamate costituisce oggetto di analisi nella sentenza in commento. Il caso di specie, infatti, concerne un decreto di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente disposto, in data 3 maggio 2011, dal G.I.P. del Tribunale di Rovigo nei confronti di una società e di due indagati, uno dei quali legale rappresentante della persona giuridica. Avverso tale provvedimento le parti sottoposte alle indagini proponevano un’istanza di riesame, respinta dal Tribunale il successivo 30 giugno. Contro quest’ultima decisione, allora, gli indagati proponevano ricorso per cassazione, adducendo come primo motivo l’illegittimità del decreto di sequestro adottato nei loro confronti in violazione degli artt. 19 e 53 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Più esattamente, secondo i ricorrenti, stante l’art. 1 del d.lgs. indicato, che ne limita l’ambito di applicabilità solo agli enti forniti di personalità giuridica, alle società e alle associazione prive di personalità giuridica, il giudice avrebbe potuto disporre il sequestro esclusivamente nei confronti della società che ha beneficiato del prezzo o del profitto del reato, ma non anche delle persone fisiche che hanno concorso nella commissione. Con il presente ricorso la Corte di Cassazione è, dunque, chiamata a pronunciarsi su quella che può definirsi una vexata quaestio, relativa alle modalità di attuazione della misura della confisca per equivalente nelle ipotesi in cui il reato sia stato realizzato in forma plurisoggettiva. Appare evidente la problematicità di tale questione se si considera che, nel caso di specie, si tratta di un concorso, non tra più persone fisiche, ma tra un ente che si avvantaggia del profitto derivante dal reato e persone fisiche materialmente responsabili della sua realizzazione. Orbene, nella sentenza in esame la Seconda sezione penale contraddice alla radice le censure svolte dai ricorrenti con il primo motivo, enunciando il seguente principio di diritto: ”Nel caso di concorso fra la responsabilità individuale dell’autore e quella ex D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso.” I giudici di Piazza Cavour non motivano nel dettaglio la loro decisione ma, dalle conclusioni a cui pervengono e dai precedenti giurisprudenziali richiamati, emerge con evidenza l’adesione all’orientamento secondo il quale la responsabilità dell’ente va inquadrata nel paradigma del concorso di persone nel reato, con il conseguente precipitato dell’applicazione anche in questo caso del principio solidaristico che informa l’intera disciplina del concorso di persone e, quindi, anche le conseguenze sul piano sanzionatorio del reato (Cass. pen., sez. III, 27 gennaio 2011, n. 7138; Cass. pen., sez. V, 24 gennaio 2011, n. 13277; Cass. pen., sez. II, 23 settembre 2010, n. 34505; Cass. pen., sez. V, 3 febbraio 2010, n. 10810; Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611; Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2006, n. 10838; Cass. pen., sez. II, 9 novembre 2006, n. 38803). In applicazione di tale principio di diritto, ad avviso della Corte, il giudice potrebbe disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente integralmente a carico della persona fisica, senza essere onerato di frazionare la misura ablatoria tra i soggetti in concorso e senza essere tenuto ad escutere previamente la persona giuridica, posto che, come chiarito esplicitamente, “nessuna norma impone di perseguire il patrimonio della persona giuridica beneficiaria dell’utile determinato dal reato, prima di aggredire il patrimonio del soggetto concorrente nel reato medesimo”. L’unico limite normativamente previsto, e rispettato anche nel caso di specie, sarebbe rappresentato dalla concorrenza del quantum, ovvero il sequestro dei beni sino alla concorrenza del profitto derivante dal reato. Ciò consente di esaminare anche il secondo e ultimo motivo di doglianza proposto dai ricorrenti, i quali lamentavano la falsa applicazione dell’art. 322-ter c.p., nella parte in cui sulla base di tale disposizione era stato ritenuto sequestrabile, oltre al prezzo del reato, anche il relativo profitto. In proposito, i giudici di legittimità innanzitutto richiamano la nozione di profitto, accolta ormai da costante giurisprudenza (Cass. pen., Sez. Un., 25 giugno 2009, n. 38691; Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass. pen., Sez. Un., 25 ottobre 2005, n. 41936), per cui il profitto a cui fa riferimento l’art. 240 co. 1 c.p. deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato, poiché il prodotto è il risultato dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, mentre il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito. Per la Corte, però, rispetto a tale distinzione ve n’è un’altra che assume maggior rilievo nel caso di specie, quella tra i reati contratto, consistenti nella conclusione di un contratto e mediante i quali si incrimina il fatto stesso della stipulazione, e reati in contratto, rappresentati da quelle fattispecie delittuose in cui il legislatore non sanziona l’accordo contrattuale, ma attribuisce rilevanza penale, più che altro, al comportamento individuale che precede o, talvolta, segue quest’ultimo. È evidente, allora, l’importanza assunta da questa distinzione ai fini dell’individuazione del quantumsequestrabile. Infatti, nel caso di reato contratto deve ritenersi confiscabile qualsiasi prestazione percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, essendovi una vera e propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico, mentre nell’ipotesi di reato in contratto il profitto del reato confiscabile sarà individuato solo nel vantaggio economico derivante dal fatto illecito e, quindi, dal comportamento tenuto da una parte in danno dell’altra, durante la fase delle trattative o durante la fase esecutiva. Alla luce di tali motivazioni, i giudici di Piazza Cavour rigettano anche questo secondo motivo di ricorso, poiché nel caso in esame il delitto per il quale era stato disposto il sequestro era un reato contratto (la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640 bis c.p.) e, di conseguenza, “l’intero prezzo è sequestrabile, senza fare alcun riferimento alla distinzione fra questo ed il profitto”. In conclusione, la sentenza in commento ha sicuramente il pregio di esprimere una posizione netta dei giudici di legittimità, ma non riesce a risolvere alcuni dei nodi interpretativi più dibattuti in dottrina e in giurisprudenza. In primo luogo, può osservarsi che, sebbene l’ente beneficiario degli illeciti proventi del reato non possa considerarsi estraneo allo stesso e, di conseguenza, debba anch’esso subire le conseguenze derivanti dalla sua commissione, ciò non comporta necessariamente la riconducibilità della sua posizione nell’ambito del concorso di persone nel reato. Com’è stato infatti sostenuto in alcune pronunce (da ultimo Cass. pen., sez. II, 27 settembre 2006, n. 31989), l’ente non diventa partecipe nella condotta solo perché dal reato ha tratto profitto. L’aver tratto profitto, in termini di interessi e vantaggi, determina esclusivamente la ratio della sua responsabilità che, dunque, si relaziona alla commissione del reato soltanto in termini di mera derivazione dall’agire illegale delle persone che rivestono, al suo interno, funzioni di preminenza o di amministrazione. A sostegno di tale assunto è posto l’art. 8 del D.Lgs. 231/2001 che qualifica la responsabilità dell’ente come autonoma, tant’è che essa è ritenuta sussistente anche quando l’autore del fatto non sia stato identificato o non sia imputabile oppure il reato si sia estinto per causa diversa dall’amnistia. L’inquadramento della responsabilità dell’ente in termini di concorso di persone nel reato è stato apertamente criticato altresì sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, sostenendo che l’ente risponda per negligenza nell’adozione dei modelli di prevenzione o nella vigilanza circa il rispetto degli stessi da parte dei componenti la società, dovremmo configurare un’ipotesi di concorso colposo nel delitto doloso commesso dalla persona fisica, in palese contrasto con la tesi maggioritaria in dottrina, che interpreta la formula “concorrono nel medesimo reato” di cui all’art. 110 c.p. come espressione della necessità di riscontrare in capo ai concorrenti il medesimo elemento soggettivo, escludendo, nell’ipotesi opposta, la fattispecie concorsuale. Sulla base di tali argomentazioni, emerge con chiarezza come la responsabilità dell’ente potrebbe essere qualificata anche in modo diverso rispetto alla tesi accolta dalla sentenza in commento, configurandosi come un c.d. concorso anomalo, originato da un unico fatto al quale conseguono illeciti distinti, imputati rispettivamente alla persona fisica che materialmente lo ha commesso e all’ente che ne abbia tratto vantaggio, non in virtù dell’estensione della responsabilità della prima, ma appunto in via autonoma. Alla luce di tali considerazioni, appare evidente quanto sia controversa la questione affrontata dalla pronuncia in esame, soprattutto sul piano delle conseguenze sanzionatorie applicabili ai concorrenti nel reato. Si avverte da più parti, dunque, l’esigenza di ulteriori sviluppi interpretativi della giurisprudenza di legittimità al fine di chiarire l’effettiva portata della disciplina dettata dal d.lgs. n. 231/2001 e la valenza da attribuire al principio solidaristico nei rapporti tra persona fisica ed ente collettivo. Eliana Libroia |
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